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«Rinascere», mostra di Pietro Verdini – Di Daniela Larentis

Ospitata nelle splendide sale del Grand Hotel Trento, l’esposizione inaugurata il 18 aprile durerà fino al 18 giugno 2015

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Le splendide sale del Grand Hotel Trento, situato nel cuore della città, ospitano una straordinaria esposizione di opere del noto pittore Pietro Verdini. Inaugurata il 18 aprile, la mostra, a cura di Nicola Cicchelli, che segue per il Grand Hotel Trento le esposizioni di vari artisti, e Nicoletta Tamanini, resterà aperta al pubblico (ingresso libero e continuato 24h) fino al 18 giugno 2015 (nella foto sotto il titolo, da sx a dx i due curatori, Francesco Stefenelli, in rappresentanza della proprietà dell’hotel, il quale ha messo gentilmente a disposizione i locali, e l’artista Pietro Verdini).
È la critica d’arte Nicoletta Tamanini a presentare al folto pubblico in sala l’evento e a delineare in maniera esaustiva la personalità e il percorso artistico di Verdini, uno degli artisti trentini contemporanei più conosciuti e apprezzati, un uomo dotato di forte carisma e dalla personalità travolgente, la cui ironia si mescola a una grande sensibilità d’animo, affascinando l’interlocutore.
Ecco come lei stessa lo descrive: «Intenso e ammaliatore è il fascino che si sprigiona da ogni opera di Pietro Verdini, uomo dal temperamento forte e passionale con un vissuto degno del miglior romanzo ottocentesco, costellato di esperienze difficili e dolorose, spesso contradditorie, essenziali per la sua formazione umana e artistica.
 

 
Dotato di intelligenza acuta e, fin dalla più tenera età, di grande amore per la cultura e la pittura in particolare, Verdini rivela, celati da un atteggiamento di ruvida estrosità, una personalità umile e riservata ed un animo nobile e sensibile fedele ai grandi valori che, da sempre, regolano l’esistenza umana.
Di origine toscana, da anni risiedente nella nostra regione e oggi stabilitosi a Pergine Valsugana, considerato da molti critici uno dei protagonisti più originali e interessanti del panorama pittorico trentino contemporaneo, Pietro Verdini percepisce fin da giovane un disperato bisogno di esprimersi e dialogare con il mondo, individuando nella pittura il mezzo più congeniale per placare ogni ansia ed aggressività giovanile e caratteriale.
Da allora, con spirito quasi ascetico, Pietro Verdini si dedica ogni giorno alla pittura, vera vocazione e fulcro della propria esistenza, divenuta, ormai dal lontano 1983, anche impegno professionale».
Durante il discorso d’apertura viene evidenziato come sia stato determinante per lui l’incontro con il pittore ebreo-tedesco Conrad Peter Bergmann, rifugiatosi a Bressanone per sfuggire alle persecuzioni naziste, del quale Verdini seguì le lezioni per alcuni anni (e con il quale aveva una grande affinità) da cui si discostò, poi, sviluppando il proprio linguaggio pittorico. 
 

 
È proprio Bergmann a lasciare a Verdini, spiega la curatrice, un insegnamento, a trasmettergli l’idea di cosa significhi essere un artista, ossia «un uomo retto, un uomo che ha una morale, che ha una missione, un uomo che tramite le proprie opere deve aiutare il prossimo ad avvicinarsi ad un’etica di vita».
Come viene sottolineato nella presentazione e nel pieghevole che accompagna la mostra «la scelta dell’artista si è polarizzata nel tempo verso una monocromia avvolgente carica di misterioso silenzio: un blu notte, a volte un nero intenso, steso con l’amorevole pazienza di chi ancora dipinge ad olio, su tavole di legno spesso fortunosamente salvate dall’altrui incuria e opportunamente trattate.
In questo clima di attesa, sospeso nel tempo e nello spazio, le forme e le masse si palesano magicamente grazie ad esili profili bianchi su cui una luce fredda, lunare o, forse, cosmica, si riflette, dando corpo e profondità all’opera».
«Rinascere», il titolo della mostra, spiega Nicoletta Tamanini, «è ciò che lui fa ad ogni mostra e con ogni opera, rappresenta la voglia di rimettersi in gioco, di continuare a proporre qualcosa di positivo.»
Opere, le sue, che nella loro essenzialità a noi sembrano suggerire anche un allontanamento da tutto ciò che appare superfluo, invitando alla sobrietà, alla misura.
Abbiamo poi colto l’occasione per porgergli al volo alcune domande.
 

Il potatore Lacoonte.
 
Cosa rappresenta per lei la pittura?
«Per me, e penso anche per molti altri artisti, la pittura è un salvagente. Si è come dei naufraghi in mezzo al mare che si aggrappano a questa ciambella, la pittura.»
 
Quando si è avvicinato all’arte?
«Mi misero per farmi studiare in un collegio francescano dei frati minori all’età di dodici anni. Ma ero un bambino particolare, mi mettevano sempre in punizione, ero molto vivace (da Pistoia andai successivamente a Firenze e infine al Santuario de La Verna, nel Casentino, ma il mio animo ribelle mi portò ad abbandonare quella vita di cieca obbedienza, intraprendendo altre strade).
«In terza media chiamarono un professore di disegno, un certo Nascimbeni di Firenze, il quale era molto severo. Un giorno ci portò a vedere gli Uffizi e ci lasciò lì l’intera giornata, chiedendoci poi quale di quelle meraviglie ci era piaciuta maggiormente.
«Era stato bellissimo poter rimanere fra quei capolavori, ammirare le opere di Paolo Uccello, di Botticelli, di Leonardo, del Mantegna, di Giotto, del Cimabue, io andavo matto per il Cimabue, di Duccio da Boninsegna e di tanti altri.
«Tuttavia, fra tutte io fui ammaliato da un’opera in particolare, un quadro intitolato La Tebaide, un paesaggio osservato dall’acqua, una mezza barca e un pescatore che tirava su la rete, a riva c’era una donna intenta a cucinare e un orto, un uomo che potava o innestava, e il bosco.
«È stato come un richiamo per me, come se lo stesso quadro mi invitasse a entrare in quel paesaggio che mi sembrava di riconoscere.»
 

 
Che messaggio vuole trasmettere attraverso le sue opere e in particolare quella intitolata «Il potatore Laocoonte», alle nostre spalle?
«Ogni quadro trasmette un messaggio diverso, l’amore per la natura, per il mare, per il Creato. Questo quadro intitolato Il potatore Laocoonte (Laocoonte è un personaggio della mitologia greca, sacerdote troiano, figlio di Antenore, il quale venne assalito, con i figli che voleva difendere, da due serpenti), rappresenta la lotta del contadino, che rimanda alla lotta di Laocoonte, contro le intemperie, se si osserva attentamente il dipinto la vigna a un certo punto devia e sembra diventare un serpente.»
 
Salutandolo, riflettiamo sul fatto che sia improbabile se non impossibile non venir catturati dal fascino di questo personaggio, dall’incanto delle sue originalissime opere, da quei paesaggi e da quelle forme sinuose e poetiche che sembrano trascinarci in un sogno monocromatico, regalandoci l’illusione di poter ritrovare noi stessi.
 
Daniela Larentis – [email protected]

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