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L’irriverente penna di Giovannino Guareschi – Di Daniela Larentis

Ricordiamo con Alberto Pattini uno degli scrittori più scomodi del Novecento che conobbe l’orrore dei campi di concentramento

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Giovannino Guareschi è stato un disegnatore, umorista, giornalista del Novecento, nonché scrittore «scomodo», che visse la tragica esperienza del campo di concentramento.
Le sue opere sono state tradotte in moltissime lingue, una di queste, «Diario Clandestino» (Rizzoli Editore), è un commovente libro, a tratti ironico, che mostra al mondo l’orrore della prigionia.
Il soldato dall’aria triste in copertina è proprio lui (il disegno è suo). Lo si osserva in foto nella prima aletta, mentre sembra scrutarci con quel suo sguardo acuto, invitandoci alla lettura e a una profonda riflessione.
Come è indicato proprio sotto l’immagine «è questo il Guareschi magro e la foto che ce ne mostra le sembianze è la stessa che l’Amministrazione Militare tedesca gli scattò nel 1944 nel Lager 333 di Sandbostel e che, assieme alla sua scheda personale, il Guareschi recuperò il 16 aprile 1945, quando la gestione del campo passò agli inglesi».
Catturato dai tedeschi subito dopo l’armistizio, fu mandato in un campo di concentramento, prima in Polonia, poi in Germania, dove rimase fino al settembre 1945.
Un libro pensato e scritto, «anche pubblicato durante la prigionia», in quanto i brevi racconti che contiene, i pensieri e pezzi vari venivano dallo stesso autore letti ai compagni, prigionieri come lui.
Nelle prime pagine, in quelle che vengono definite «istruzioni per l’uso», egli spiega cosa è esattamente quel diario «che non è neppure un diario». 
 

 
Ecco le sue parole: «In verità io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per due anni, annotai diligentissimamente tutto quello che facevo o non facevo, tutto quello che vedevo e pensavo.
«Anzi, fui ancora più accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi portai a casa tre librettini con dentro tanta di quella roba, da scrivere un volume di duemila pagine.
«E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina da scrivere e cominciai a decifrare e sviluppare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo giorno…»
 
Ci sono parole che sono più pesanti di barre d’acciaio e che, leggendole, gelano il cuore, come queste.
«Ci stivarono in carri-bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, decine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato. Il mondo ci dimenticò.»
 
Come poter dimenticare? Un pensiero suggerito anche dalla lettura di un altro struggente libro dello stesso autore, «La favola di Natale» (edizioni Rizzoli, con illustrazioni dell’autore e con musiche di Arturo Coppola), scritto in un campo di concentramento tedesco, una storia che lo stesso Guareschi definisce così (pag.85).
«Si fa la storia di questa favola. La quale non è una delle solite favole che rallegrano da secoli e secoli la prima giovinezza degli uomini, ma è stata scritta per uomini maturi e a essi è stata raccontata nel Natale del 1944. E ciò avvenne in un campo di prigionia sperduto in una deserta landa del Nord.»
 

 
Alberto Pattini ci accompagna, attraverso ricordi personali di suo padre Icilio, alla scoperta di una delle figure più irriverenti e criticate del Novecento.
«Mio padre volle chiamarmi Alberto sette anni dopo a ricordo di questa favola di Guareschi, il cui protagonista si chiama Albertino» ci racconta con emozione, riferendosi al bambino che lo stesso autore definì «un bambino “quasi orfano” di padre perché il suo papà è prigioniero» e che «la sera della Vigilia, dice la Poesia di Natale davanti alla sedia vuota del babbo e la Poesia, che poi è un uccellino, si mette in viaggio verso il campo di concentramento» (pag. 85).
 
Come è venuto a conoscenza della storia di Giovannino Guareschi?
«Fin da quando ero bambino mio padre Icilio mi raccontava molto spesso con ammirazione di Giovannino Guareschi con il quale all'età di 23 anni dopo l'8 settembre 1943 aveva vissuto un anno nel campo di concentramento tedesco di Czestochowa e Benjaminovo in Polonia.»
 
Cosa le raccontò suo padre esattamente?
«Il 13 settembre mio padre sottotenente di artiglieria di montagna della Brigata alpina Julia venne fatto prigioniero dai tedeschi nella città di Dubrovnik o Ragusa in Dalmazia, importante porto sull’Adriatico. I soldati italiani catturati venivano caricati su un treno merci destinato in Polonia.
«Il viaggio durò diversi giorni e i prigionieri viaggiarono in condizioni disumane, facendo i turni per potersi sedere e per poter adempiere ai propri bisogni fisiologici in un unico mastello di legno posto al centro del vagone.
«Una volta arrivato nel lager a Czestochowa e a Benjaminovo, 10 km da Varsavia in Polonia visse insieme a Guareschi nella stessa baracca con altri 80 soldati e patirono insieme “freddo, fame e nostalgia”.
«Mi ricordo ancora i racconti di mio padre in cui con tristezza e sofferenza mi diceva che “le loro luride camicie camminavano da sole” in quanto pullulanti di pidocchi portatori di tifo petecchiale o che “le pulci giocavano nelle coperte”, oppure che andavano “nei rifiuti dei carcerieri a rubare le bucce di patate” per lenire la fame.
«Oltre ai racconti di mio padre lo stesso Guareschi, con la consueta comunicativa chiara ed efficace, rende conto dei disagi e delle sofferenze inflitti agli ufficiali italiani negli Oflag. Questi disagi e sofferenze, sempre presenti nelle opere sulla prigionia dell’emiliano.
«Due sole pompe per tremila persone e l’acqua è inquinata. Lavarsi è un sogno. Bere è un rischio.
«Non c’è modo di sedersi nelle camerate e quattro tavole sbilenche debbono servire per ottanta persone. Il rancio è terrificante. Le carote da foraggio che ci danno ora sono completamente marce.
«Le pulci viaggiano a miliardi nella coperta e negli abiti. Piove sui letti. Pidocchi. Topi che rovinano tutta la poca roba negli zaini.
«Ma il comando tedesco distribuisce tre vasi portafiori per ogni baracca, con annessi rametti fioriti».
 


Ci può descrivere le condizioni disumane a cui furono sottoposti i numerosissimi militari italiani internati?
«L'opera “Diario Clandestino” 1943-1945 di Guareschi, pubblicata da Rizzoli nel dicembre 1949 (prima edizione) e in seguito più volte ristampata è dedicata “ai miei compagni che non tornarono”, è stata interamente pensata e scritta, tranne l'appendice, durante la prigionia dell'autore nel campo di concentramento di Sandbostel in Germania.
«È sufficiente questa frase di Giovannino per comprendere i disagi a cui furono sottoposti: “Dovunque guardi, sullo sfondo scopri la torretta, vigile e onnipresente come l'occhio di Dio. Di quel Dio che -essi dicono- è con loro, e che è molto diverso dal nostro, e che ha un nome misterioso e grottesco: Gott» (15 gennaio 1944).
«I 613.000 internati militari italiani irriducibili vennero sfruttati come schiavi, anzi come esseri subumani o pezzi numerati di magazzino (come li definivano i nazisti), in miniere, fabbriche e campi o a scavare macerie e trincee, sempre sotto minaccia delle armi, tra violenze, degrado, fame, malattie non curate e dei bombardamenti alleati.
«Le loro speranze di vita erano di pochi mesi poiché lavoravano da settanta a cento ore alla settimana con un consumo giornaliero di 2500/3500 calorie, non compensato dall'alimentazione di 800-1700 calorie.
«La sopravvivenza degli I.M.I. si deve a qualche pacco da casa, un po’ di riso e gallette del SAI fascista e soprattutto a furti di patate, svendite del poco non rapinato nelle perquisizioni e anche bruciando decine di chili di risorse corporee.
«Mio padre ritornò in Italia in uno stato avanzato di denutrizione (pesava meno di 45 kg) ammalato di reumatismo articolare soprattutto alle ginocchia, tale da venir ricoverato per alcuni mesi all'ospedale militare di Bologna.»
  
In poche righe ci potrebbe definire chi era Giovannino Guareschi?
«Guareschi era soprattutto un uomo libero che ha rappresentato l'indipendenza della stampa di fronte ai poteri forti.
«Odiato dai politici della prima Repubblica tanto a destra che a sinistra, è stato un grande scrittore del Novecento che, unico in Italia, ha venduto più di 20 milioni di copie all'estero dei suoi libri.
«Nacque a Fontanelle (frazione di Roccabianca) il 1° maggio 1908, in una famiglia di classe media (il padre, Primo Augusto Guareschi, era commerciante, mentre la madre, Lina Maghenzani, era la maestra elementare del paese).
«Nel 1925 l’attività del padre fallì ed egli non poté continuare gli studi. Dopo aver provato alcuni lavori precari, iniziò a scrivere per un quotidiano locale. Nel 1929 divenne redattore del quotidiano Corriere Emiliano e dal 1936 al 1943 fu redattore capo di una rivista destinata ad una certa notorietà, il Bertoldo.»
 
Ci può dare qualche informazione riguardo a questa rivista?
«Il 14 luglio 1936 esce nelle edicole italiane il primo numero del quindicinale Bertoldo, rivista satirica edita da Rizzoli e diretta da Cesare Zavattini, in cui Guareschi inizialmente collabora in qualità di illustratore.
«Si trattava di una nuova rivista, pungente verso il regime e diretta a strati sociali medio-alti, in contrasto con il popolarissimo periodico Marc’Aurelio.
«Vi collaborarono importanti giornalisti ed illustratori del tempo, ma forti contrasti e dinamiche interne portano in breve tempo alla direzione di Giovanni Mosca, con Giovannino Guareschi capo redattore. In capo a tre anni la rivista diventa settimanale con tirature di 500-600 mila copie, e primo tra tutti i giornali umoristici.»
Concludiamo ricordando le parole che il Guareschi scrisse alla fine della sua favola, qui di seguito riportate.
 
Stretta la foglia – larga la via
dite la vostra – che ho detto la mia.
E se non v’è piaciuta – non vogliatemi male,
ve ne dirò una meglio – il prossimo Natale,
e che sarà una favola - senza malinconia:
C’era una volta – la prigionia…
 
Daniela Larentis - [email protected]

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