Incontriamo l’artista Stefano Cagol – Di Daniela Larentis
Alla Galleria Civica di Trento la sua opera e il percorso espositivo di «Afterimage, rappresentazioni del conflitto», l’eccezionale mostra che sta per concludersi
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Come avevamo già raccontato in un precedente servizio, «Afterimage, rappresentazioni del conflitto» è il progetto vincitore di CXC Call for Curators, il bando nazionale per curatori under 35 indetto dal Mart, una straordinaria mostra inaugurata lo scorso ottobre.
Detta mostra (che sta per concludersi, rimarrà infatti aperta al pubblico fino alla fine del mese) è stata valorizzata dalla presentazione tenuta da una guida d’eccezione, Stefano Cagol.
Due parole su questo artista trentino che non ha certo bisogno di presentazioni.
Nasce a Trento e studia a Berna, Milano e Toronto. Artista vincitore del premio VISIT della tedesca RWE Foundation (2014) e vincitore del Premio Terna 02 per l'arte (2009), partecipa alla 55. Biennale di Venezia (2013) nel Padiglione Nazionale delle Maldive.
Espone in musei e biennali sia in territorio nazionale che internazionale, tra cui ZKM, Karlsruhe; Laznia, Danzica; Museion, Bolzano; Museo Maga, Gallarate; MARTa Herford; Kunstraum Innsbruck; Triennale di Milano; Barents Triennale; Xinjiang Biennale; Moscow Biennale; Singapore Biennale; SUPEC center, Shanghai, World expo; Kumho Museum, South Korea; White Box, New York.
È sua l’installazione permanente collocata presso il principale accesso alla città, allo svincolo autostradale di Trento Sud (A22), intitolata «Tridentum», un’opera monumentale in acciaio realizzata nel 2011, la quale rappresenta le montagne che abbracciano Trento, quindi, simbolicamente, la città stessa (foto seguente).
Alla presenza di Margherita de Pilati, responsabile della Galleria Civica di Trento, nel pomeriggio di martedì 20 gennaio 2015 ha illustrato al folto pubblico presente in sala una personale chiave di lettura delle opere esposte, partendo dalla sua, un’emblematica installazione collocata esternamente, all’ingresso di Via Belenzani, proprio sopra l’entrata principale (foto sotto il titolo).
Il significato dell’opera intitolata «RAWAR» è evidenziato nell’intervista che segue.
Scopo della mostra è proprio quello di interrogarsi sul ruolo assunto dalle immagini nella percezione collettiva di una condizione di pace o di guerra, cercando di fornire gli strumenti critici per analizzare e comprendere una realtà sempre più complessa. Ci ha inoltre ricordato il significato del titolo stesso della mostra, il termine anglosassone afterimage, che descrive l’illusione ottica per cui un’immagine continua a rimanere impressa nella mente anche dopo aver cessato di guardarla.
Osservando come la guerra accompagni l’uomo da sempre ha percorso le sale espositive, scrutando e commentando con interesse le immagini e le opere che la testimoniano, interagendo con le persone presenti.
Essa pare essere un’inevitabile espressione dell’aggressività umana, infatti non si può non pensare a quanto sia costantemente presente e a quanto sia sempre più distruttiva.
«Non c’è mai una lettura univoca di un’opera» ha precisato, ma ognuno la può interpretare in maniera personale, cogliendone un diverso aspetto, anche a seconda del momento. Abbiamo colto infine l’occasione per porgere a Stefano Cagol alcune domande (chi volesse sapere qualche informazione ulteriore può consultare il suo sito www.stefanocagol.com).
Come è nata la passione per l’arte?
«Credo sia innata. La mia prima opera? Avevo tre anni e ho rubato un rossetto dalla borsetta di mia madre per disegnare sulla parete bianca del corridoio della mia casa di Berna in Svizzera, dove abbiamo vissuto per dieci anni.
«Era una lunga scala, per raggiungere le nuvole, il paradiso. Questa è stata la spiegazione che ho dato a mia madre, stupita e arrabbiata, quando se ne è accorta.»
Quali sono gli artisti o le correnti artistiche che hanno maggiormente influenzato il suo lavoro?
«Torno con la memoria alla Svizzera. Alle medie il mio professore era un artista: Remo Viani. Ecco, sicuramente lui è stato fondamentale nella mia formazione, anche se è un artista poco noto, ora scomparso. E certo, durante gli studi, Duchamp, Beuys… fino al mio quasi contemporaneo Bill Viola.
«All’Accademia di Brera a Milano la mia tesi con D’Avossa è stata su Fortunato Depero, sulla sua produzione grafica e pubblicitaria, il suo aspetto a mio avviso più geniale e innovatore.
«E poi ci sono i curatori: ho avuto l’onore di collaborare con curatori come Jan Hoet, Achille Bonito Oliva, Veit Loers, Amnon Barzel, Mami Kataoka, Gabriella Belli, fino ad Andrea Viliani e Alfredo Cramerotti…»
Quali sono i soggetti o le situazioni da cui trae maggior ispirazione?
«Il mio continuo andare fuori. Fuori dai confini conosciuti, come un esploratore. Appena finita l’Accademia ho cercato e vinto una borsa di studio per andare all’estero, quando ancora non era la norma.
«Era una borsa di studio del governo canadese per un progetto di post dottorato in video arte presso la Ryerson University di Toronto. Lì, giovanissimo, frequentavo Michael Snow, un gigante dell’arte e della video arte canadese, poi ho fatto una presentazione al “mitico” McLuhan centre for culture and technology…
«Da allora non ho mai smesso di muovermi. Fino nell’artico, al confine russo norvegese, dove torno spesso.»
Perché ha preferito determinate forme espressive ad altre più «tradizionali»?
«Utilizzo ogni mezzo che mi serve per sviluppare la mia idea. Non mi pongo limiti per quanto riguarda i materiali, le dimensioni, le forme espressive, i luoghi e le modalità di presentazione della mia opera. Ora ad esempio la mia nuova opera è un viaggio di mesi attraverso l’Europa.
«È un viaggio tra luoghi di produzione di energia (in senso stretto) e luoghi di produzione di energia culturale che sto realizzando perché ho vinto un premio di una fondazione tedesca, e sbarcherà il 13 marzo anche al museo MAXXI di Roma.
«Poi “The Body of Energy” (il corpo dell’energia), questo il titolo, darà ovviamente vita a un ampio corpus di opere video e opere fotografiche. Posso dire che non sto utilizzando la pittura. Ma non la escludo.»
Fra le numerosissime e prestigiose mostre a cui ha partecipato, quale le è rimasta più nel cuore e perché?
«La Biennale di Venezia, senza dubbio. Ho partecipato nel 2013 all’interno del Padiglione Nazionale delle Maldive, che era pensato come un progetto internazionale dedicato a opere sul cambiamento climatico.
«La Biennale è l’evento per eccellenza dell’arte globale, una sorta di Olimpiade dell’arte. Partecipare è stata un’emozione e soddisfazione unica.»
Qual è il più bel complimento che ha ricevuto?
«Proprio a Venezia. Da un passante per strada, un veneziano. Mi ha detto che era l’opera più bella avesse mai visto alla Biennale perché l’aveva capita, nonostante il suo aspetto estremamente minimale.
«Questo è il più bel complimento, ancora più di uscire con quell’opera su The New York Times, BBC e avere la copertina del Kunst Bulletin svizzero.
«Avevo collocato un blocco di ghiaccio lungo la riva a Venezia e l’ho lasciato sciogliere sotto il sole, per richiamare simbolicamente i nostri ghiacciai alpini e il loro inesorabile scioglimento che va influenzare l’innalzamento dei mari e la paventata sparizione dell’arcipelago delle Maldive, e della stessa Venezia. Alpi e Maldive, ghiaccio e sole, uniti in un unico destino.»
Qual è il rapporto, secondo lei, fra la nostra società e l’arte contemporanea e come definirebbe quest’ultima?
«L’arte non viene più svolta nel chiuso di un atelier e mostrata agli ospiti di un palazzo o alla popolazione di una città, ma è estremamente mediatica e capace di espandere la propria risonanza all’infinito.
«E l’arte per sua natura è una membrana sensibile, capace di percepire e tradurre quanto avviene, anche di anticiparlo. Il suo è quindi un ruolo sociale, politico, importantissimo.
«Agisce sull’inconscio della società, in maniera indiretta, anche in una reazione non immediata tra causa ed effetto.»
Da artista, come immagina il futuro dell’arte?
«Con l’arte capace di influenzare ed interagire sempre più con la società.»
Ci potrebbe brevemente sintetizzare il significato filosofico della sua interessante opera esposta alla mostra Afterimage?
«A Trento, in questa significativa occasione presso la Galleria Civica, la mia opera è installata proprio sopra il suo ingresso più esterno, su via Belenzani.
«È l’opera in neon bianco RAWAR. L’opera che ho esposto per la prima volta in un’esposizione al museo MUKHA di Anversa nel 2009.
Una doppia V, W, lampeggiante al centro ricorda il simbolo italiano che traduce l’esclamazione Viva!, mentre ai lati, attraverso una continua pulsazione luminosa si formano le due parole inglesi raw puro, crudo, origine) e war (guerra), quindi per intero rawar una parola inesistente, in un certo senso onomatopeica…
«Ho così richiamato le parole palindrome inglesi che esattamente quarant’anni prima erano state utilizzate da Bruce Nauman. Malgrado il passare del tempo e malgrado vittorie e sconfitte (Nauman era in piena guerra del Vietnam), il conflitto si dimostra infatti, ancora e sempre, parte imprescindibile della nostra vita.»
Sogni nel cassetto e progetti futuri?
«Sono in partenza per realizzare proprio la seconda parte del progetto transnazionale sull’energia The Body of Energy (il corpo dell’energia).
«Partirò il 30 gennaio dal Folkwang Museum di Essen in Germania, nella Valle della Ruhr, mi sposterò a Ghent in Belgio, volerò a Kirkenes nel nord della Norvegia, poi sarò a Parigi ospite dell’Istituto Italiano di Cultura, quindi in Spagna a Granada dove c’è la più grande centrale che sfrutta l’energia solare, per arrivare fino a Gibilterra da una nuova sede espositiva nei bastioni.
«In Italia il progetto sarà presentato, come dicevo, al Maxxi, mentre l’atto finale sarà di nuovo in Germania il 21 marzo allo ZKM di Karlsruhe. Poi tornerò alla Biennale di Venezia a maggio per presentare il libro che ne nascerà per la casa editrice Revolver di Berlino.»
Un’ultima domanda. Se lei potesse magicamente cambiare qualcosa, qualsiasi cosa, cosa cambierebbe?
«Pensando proprio alla mostra Afterimage: cancellerei il lato oscuro dell’uomo.»
Daniela Larentis – [email protected]
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