Quando il tempo è libertà e l’età un ostacolo – Di Daniela Larentis
«C’è chi arriva a 90 anni e muore giovane, chi si sente già vecchio a 30 anni e chi vive sognando l’eterna giovinezza»
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Malattie a parte, la vecchiaia, osservando la gioia di vivere di alcuni, non pare affatto essere una brutta stagione (qualche acciacco è del tutto tollerabile, considerato che il cammino di ognuno, in qualsiasi fase della vita, è intervallato da tutta una serie di problemi da risolvere), del resto ci sono anche giovani che non sanno cosa farsene della loro salute e del loro potenziale psico-fisico (le malattie inoltre possono colpire anche loro).
Valutando la realtà con occhio critico, e prendendo le distanze dai soliti luoghi comuni, verrebbe da pensare che la giovinezza non sia sempre quel periodo roseo che alcuni dipingono come «gli anni migliori» o «gli anni della costruzione» (c’è da osservare che spesso poi alcuni, dopo aver costruito, distruggono i frutti dei loro sforzi).
Per ciascun individuo, infatti, la vita rappresenta un percorso e non è affatto detto che il primo tratto sia il più suggestivo.
Sta a ognuno vivere il proprio cammino in un modo anziché nell’altro, con entusiasmo o con indifferenza, con curiosità o con rassegnazione, cogliendo qua e là le occasioni che esso offre «fino alla fine dei nostri giorni», come verrebbe da aggiungere in un moto di sano ottimismo, ricordando a se stessi che l’invecchiamento, dal punto di vista fisico perlomeno, è strettamente legato allo stile di vita adottato in precedenza (motivo per cui, quando si è giovani è meglio adottare uno stile di vita sano, cercando di preservare la salute, forse il bene più prezioso).
D’altra parte non è nemmeno vero che gli anziani siano tutti saggi, in quanto non tutti fanno tesoro delle proprie esperienze (la saggezza scaturisce dall’esperienza, ma c’è chi non impara nulla dai propri errori) e non è corretto nemmeno pensare che tutti i giovani siano poco assennati (ce ne sono di giudiziosi così come vi sono uomini maturi molto poco equilibrati, nonostante il loro certificato di nascita faccia presupporre il contrario).
Molte volte è davvero facile lasciarsi trascinare dentro l’insidioso terreno dei luoghi comuni, incasellando ed etichettando Tizio e Caio, dimenticando che la questione dell’età (e di come la si vive) è davvero una faccenda molto personale: ognuno di noi è destinato a invecchiare, se non muore prima, e si troverà a interrogarsi prima o poi sul significato dello scorrere dell’esistenza, traendo delle conclusioni in base al proprio vissuto.
Una frase come «la tal persona varca la soglia degli anta» (che siano quaranta, cinquanta, sessanta e via dicendo) viene generalmente percepita in senso negativo, come se quella persona stesse per entrare in chissà quale luogo ameno, segnando un punto di non ritorno (in realtà tutti gli istanti della nostra vita sono irripetibili e questa è davvero una gran fortuna se pensiamo ai momenti tristi, inoltre siamo tutti appesi a un filo e la vita può terminare per ciascuno in qualsiasi momento, quello che è certo è che prima o poi lasceremo questo mondo).
Chi può dire che la primavera sia una stagione preferibile ad altre?
O l’estate lo sia rispetto all’autunno o perfino all’inverno?
Ci sono primavere particolarmente fredde e piovose e l’estate che ci siamo lasciati alle spalle, almeno dal punto di vista atmosferico in alcune regioni del nord, non è stata certo esaltante (meglio l’autunno con i suoi caldi colori e il suo rassicurante tepore o il magico inverno con la neve che scende improvvisa a ridisegnare i contorni del paesaggio).
Il fatto è che le ore continuano a passare incessantemente, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto e noi non possiamo fare nulla se non spendere bene ogni singolo istante.
Potremmo anche dire che la vecchiaia di per sé non esiste se non nella testa di chi la accoglie, nella realtà alcuni la vivono semplicemente come una fase della vita del tutto naturale, altri fanno fatica ad accettarla: oggi non siamo più quelli di ieri, ma nemmeno siamo chi saremo domani e definirci non servirà certo a farci stare meglio.
A proposito di definizioni, si dice che l’età matura vada più o meno dai quarantacinque anni ai settanta (poi si diventerebbe decrepiti).
Quanti settantenni si sentono tali? Pochi? Molti? E chi lo sa, c’è chi si sente così già a sessant’anni. Chi prima e chi mai.
Forse sentirsi in un modo o nell’altro è dovuto alla capacità di sapere o meno accettare i cambiamenti, di saperli accogliere e sfruttare a proprio vantaggio.
Non si sa se sia un bene o sia un male continuare a trasformarsi, dipende più che altro dalle circostanze: c’è chi migliora con il tempo, come certi vini, e chi al contrario peggiora, quindi non ha senso dire, riferendosi a un cinquantenne per esempio, «dimostra la sua età», perché non tutti i cinquantenni sono uguali e quindi la frase non ha molto significato (considerando che per tanti cinquantenni che si conoscano essi saranno sempre molti di meno di quelli di cui si ignora l’esistenza).
La percezione che ognuno ha di se stesso dovrebbe a ogni modo prescindere dal certificato anagrafico, purtroppo però è facile lasciarsi influenzare dal numero di candeline che ci si ritrova a spegnere sulla torta ogni anno, è per questo che i compleanni non si dovrebbero affatto festeggiare se non da bambini (non occorre comperare una torta il tal giorno per ricordarsi di essere al mondo, una volta diventati adulti, anzi, se si ha voglia di un dolce lo si può mangiare in una qualsiasi altra occasione).
Fermare il tempo in un dato momento, tentando di tenerlo a bada, avendo la sensazione di poterlo in qualche modo controllare, rassicura ed è comune a molte persone.
Alcune amano etichettarsi, pensiamo ai coscritti, a coloro che, essendo nati nello stesso periodo, si sentono spesso accomunati non solo da esperienze vissute insieme in un dato momento della vita (ciò è meraviglioso), ma anche dal fatto di essere venuti al mondo proprio nel medesimo anno.
Una volta esistevano «le classi», ai tempi in cui era obbligatorio il servizio militare. A tal proposito ecco cosa spiega l’etnologo e scrittore Marc Augé nel suo libro intitolato «Il tempo senza età – la vecchiaia non esiste» (Raffaello Cortina Editore), a pag 55: «Al tempo in cui il servizio militare era obbligatorio si apparteneva a una classe che veniva definita dal numero ottenuto aggiungendo 20 all’anno di nascita e ritenendo le due cifre del risultato.
«Nel XX secolo una persona della classe 46 era nata nel 1926, una della classe 09 era nata nel 1889. Il giorno in cui la commissione medica li chiamava in adunata per esaminarli, tutti i giovani di sesso maschile di vent’anni (all’epoca non ancora maggiorenni) venivano riuniti in un luogo ben preciso: il municipio del loro comune. E dovevano mettersi nudi. In breve: una seconda nascita.»
Sottolinea ancora che «appartenere e dichiarare la propria classe non ha bisogno di alcun calcolo, è un elemento di identità permanente e anche di una certa solidarietà, di appartenenza a un gruppo».
Dice poi: «In un contesto rurale, mi è capitato spesso di sentire uomini che mi parlavano di un altro dicendo: «È della mia classe», come avrebbero detto: «È mio cugino».
Diversamente dagli anni di avanzamento nei corsi di studio, la classe riguardava un’intera generazione senza esclusione, ma su base territoriale.
Il servizio militare, invece, poteva di suo mobilitare i giovani, per alcuni è addirittura stato l’unica occasione per uscire da casa e il consiglio di leva, un’ufficializzazione della classe come tale, radunava dei vicini. La classe è infatti il riconoscimento di un’identità sia individuale sia collettiva (una summa di rapporti) ed entrambe le identità sono ancorate nel tempo e iscritte nello spazio».
A pag. 78 Marc Augé scrive riferendosi ai cambiamenti: «I cambiamenti che possiamo imputare al tempo non sono per forza un segno di degrado o deterioramento.
È chiaro che quando diciamo che un libro o un film sono invecchiati di fatto parliamo di un cambiamento tutto nostro. Tuttavia se focalizziamo l’attenzione sul punto di partenza del ricordo vediamo che esso scaturisce da una relazione (tra il libro o il film e noi) e dunque bisogna riconoscere che è proprio siffatta relazione a essere cambiata e non necessariamente l’opera o noi…».
A proposito dei libri aggiunge alla pagina seguente: «Un libro che non invecchia è un libro dal quale il lettore può sempre scoprire qualcosa, un libro che in questo modo gli dimostra che è ancora vivo, che i loro destini sono intrecciati e che sono uniti in vita e in morte.»
Molte volte invecchiare significa scivolare nella solitudine.
Forse è per questo che molti sono spaventati dall’idea di perdere la giovinezza.
A pag. 89 l’autore scrive quanto segue: «Si dice che la solitudine sia uno dei mali più crudeli dell’età avanzata: in realtà, più il tempo passa più si sciolgono, o almeno si allentano, quei legami che ci tenevano ancorati alla riva. Il pensionamento, a cui tuttavia alcuni aspirano, impone e crea di colpo una distanza dalle familiarità quotidiane, una distanza che può inquietare tanto è forte la sua somiglianza con una specie di morte.
«Eppure a volte si celebra quell’avvenimento con una cerimonia che evoca un servizio funebre, con i suoi discorsi, i fiori e la sincera emozione di qualcuno».
Sarebbe meglio, al contrario, pensare al pensionamento come un’età in cui poter ancora sperimentare. Il tempo a disposizione è troppo breve per rinunciare a farlo, per trascorrerlo solo da spettatori assenti in attesa di una morte certa.
Come diceva Madre Teresa di Calcutta: «La vita è un’opportunità, coglila!» e questa esortazione vale sempre, non ha certo scadenza.
Daniela Larentis – [email protected]
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