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Mai vantarsi troppo – Di Daniela Larentis

Nella mitologia c’è chi fu addirittura scorticato vivo per questo

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Il nostro mondo, quello delle apparenze, pullula di persone che non fanno che lodarsi: «Chi si loda si imbroda» recita un vecchio detto, ossia «chi si loda eccessivamente procura un danno a se stesso», del resto vantarsi è davvero un atteggiamento che può risultare assai antipatico e controproducente.
Ci sono persone, infatti, che gonfie di sterile superbia sbandierano a tutti le loro capacità, lungi dal riconoscere i propri limiti; alcune ostentano ciò che affermano di possedere come se l’avere (qualsiasi bene materiale) contasse più dell’essere.
Poi ce ne sono altre che sottolineano la loro posizione sociale, o le loro conoscenze. Le loro presunte competenze.
Va bene essere contenti di se stessi, ma l’autocompiacimento esagerato risulta essere più fastidioso di una mosca.
E più dannoso. La superbia, poi, quell’atteggiamento di superiorità nei confronti degli altri, quella valutazione esagerata delle proprie qualità, è un comportamento che molte volte ha chi sotto sotto ama farsi adulare, sì, perché chi si loda ha bisogno di consensi, e questo la dice lunga sulla natura di queste persone.
 
Stando alla mitologia greca si narra, per esempio, di come la dea Atena gettò via il suo flauto, maledicendo chi lo avesse raccolto, dopo aver visto la sua immagine riflessa nelle acque del fiume; pare che osservando le sue guance gonfiarsi abbia compreso la ragione per cui, durante una sua esibizione, la sera prima (in occasione di un banchetto in onore di Zeus), due delle invitate avessero a fatica trattenuto il riso, anziché applaudirla come il resto del pubblico. 
Un tale Marsia che passava di lì afferrò poi lo strumento e portandolo alla bocca si accorse che il flauto emetteva un suono meraviglioso, tanto che iniziò a girare e a suonarlo; naturalmente ben presto divenne famoso.
Solo che il successo gli diede alla testa e il dio Apollo lo invitò sull’Olimpo per una sfida (Apollo avrebbe suonato la cetra), chiedendo alle Muse di giudicare la competizione.
Sulle prime sembrò che fossero a pari merito, ma poi Apollo invitò il satiro a suonare lo strumento capovolgendolo e, siccome solo la cetra e non il flauto si presta a essere suonata anche capovolta, lui non solo vinse ma alla fine scorticò letteralmente il poveretto, punendolo per la sua superbia.
 
Ahi, la superbia, che brutto vizio, molto peggio della gola a detta di molti. E a proposito di ingordigia, quell’avidità esagerata nel consumare cibo tipica di chi è ingordo, essa può essere letta anche come il tentativo di riempire la nostra esistenza del superfluo, del «totalmente inutile», come se la vita fosse solo un ingurgitare forsennato, spesso in perfetta solitudine, mentre il cibo, come tutto il resto, è fatto per essere condiviso.
Sì, perché è dalla condivisione che può nascere la felicità degli individui e il benessere della collettività (condivisione in senso ampio, sia di affetti, emozioni, ma anche di risorse).
Gandhi diceva che «la Terra ha abbastanza per soddisfare il bisogno di tutti, ma non per soddisfare l’ingordigia di pochi», una frase, questa, il cui significato non può certo sfuggire…
 
Consumare, consumare, quanti bisogni nuovi ci creiamo ogni giorno. Nessuno è più allenato alla rinuncia.
E ogni rinuncia è vissuta con grande apprensione. Ma di che cosa abbiamo davvero bisogno?
E chi lo sa, forse quello di cui necessitiamo maggiormente è vivere una dimensione più umana, una vita più autentica fatta di piccole cose. 
 
Daniela Larentis – [email protected]

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