E c’è chi vuole sempre avere ragione – Di Daniela Larentis
In un breve trattato qualcuno elencò numerosi stratagemmi per averla vinta durante una disputa
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Capita, talvolta, di imbattersi in persone che discutono fino allo sfinimento con l’unico scopo di far prevalere la loro idea, giusta o sbagliata che possa essere.
Questi individui hanno a cuore solo poter dimostrare di avere ragione, spesso non sono nemmeno convinti di ciò che sostengono, per loro è importante unicamente persuadere il loro interlocutore (questo atteggiamento che potremmo definire «l’arte di vincere nelle discussioni» ricorda un po’ la dialettica dei sofisti, per i quali era importante confutare le affermazioni dell’avversario, a prescindere dalla verità o meno dell’oggetto della disputa: i sofisti, che potrebbero ricordare in un certo qual modo gli avvocati dei nostri giorni, erano molto abili nel difendere la loro tesi).
A questo punto viene in mente Protagora, considerato «il padre della sofistica».
Il suo pensiero è riassumibile nella celebre frase «L’uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono, per ciò che sono, e di quelle che non sono, per ciò che non sono», quella che noi chiamiamo realtà varierebbe così in base alle persone che la interpretano.
Riflettendo su una delle possibili interpretazioni (l’uomo in questione sarebbe un uomo qualunque in questo caso) verrebbe da fare un esempio: al ristorante marito e moglie mangiano metà della stessa pizza.
Stando a questo ragionamento, la medesima pizza al salamino, poco piccante per il primo e molto piccante per la seconda, cosa sarebbe, piccante o poco piccante?
Sarebbe comunque ambedue le cose (poiché nel nostro esempio due sono gli individui che l’hanno mangiata) e nessuno dei due pareri sarebbe da considerarsi meno vero dell’altro.
Il valore delle cose dipenderebbe così da persona a persona e per la stessa persona anche in base al momento considerato (la moglie, in un’altra circostanza, per esempio dopo aver assaggiato un peperoncino del Sud America molto piccante come il terribile Capsicum pubescens, potrebbe valutare la pizza come moderatamente piccante).
Tornando a quanto detto prima, ottenere ragione, a ogni modo, è un’arte, o così pare la pensasse anche il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (immagine in basso), uno dei maggiori pensatori del XIX secolo.
In un breve trattato il cui titolo italiano è «L’arte di ottenere ragione», il celebre filosofo esamina svariati stratagemmi (38) da usare in una disputa al fine di averla vinta. Fra questi, tutti molto arguti, ve ne sono un paio di particolarmente interessanti che vale la pena ricordare.
Suggerisce, per fare ammettere una tesi all’avversario, di presentare il suo opposto in maniera denigratoria, al fine di costringerlo ad accettare la propria tesi che a quel punto sembrerebbe probabile.
A pag 86 del trattato (Arthur Schopenhauer - L’arte di ottenere ragione – edizione integrale, introduzione e traduzione di Gian Carlo Giani, Newton Compton Editori), si legge: «Stratagemma 13. Per far sì che egli ammetta una tesi, dobbiamo presentargli il suo opposto e lasciargli la scelta, ed esprimere questo opposto molto nettamente, in modo che, per non essere paradossale, egli debba accettare la nostra tesi, che per contro sembra molto probabile».
«Ad esempio, egli deve ammettere che uno deve fare tutto ciò che gli dice suo padre; allora noi chiediamo Dobbiamo in ogni cosa essere disobbedienti o obbedienti ai genitori?
«Oppure, se di qualche cosa è detto spesso, domandiamo allora se con spesso sono intesi pochi casi o molti: egli dirà molti.
«È come quando si mette il grigio accanto al nero per chiamarlo bianco; e quando lo si mette accanto al bianco per chiamarlo nero.»
Uno degli stratagemmi è quello di incalzare l’avversario: se l’avversario si dimostra evasivo riguardo a un argomento, incalzarlo proprio su quell’argomento, sfruttando la sua debolezza.
Ecco cosa è riportato a tal proposito a pag. 108: «Stratagemma 34. Se l’avversario non dà una risposta diretta a una domanda o a un argomento o non prende alcuna posizione, ma mediante una contro-domanda, una risposta indiretta o addirittura qualcosa che non ha relazione con l’oggetto, è elusivo e vuole parare altrove, questo è allora un segno certo che noi (talora a nostra insaputa) abbiamo colpito un punto debole: da parte sua, è un ammutolimento relativo».
«Sul punto da noi eccitato si deve quindi insistere e incalzare l’avversario, anche quando non vediamo ancora in che consiste propriamente la debolezza che abbiamo colpito.»
L’ultimo stratagemma è assai discutibile e consiste nel diventare offensivi e oltraggiosi, nel caso in cui ci si dovesse accorgere della superiorità dell’avversario e sostanzialmente di avere torto.
Molte persone discutendo si comportano proprio così, aggredendo verbalmente e offendendo, un segno inequivocabile della loro debolezza.
Nella prefazione del citato libro, a pag. 29 così viene sintetizzato l’ultimo stratagemma da Gian Carlo Giani.
«Ultimo stratagemma. Quando si nota che l’avversario è superiore e che si avrà torto, si diventi aggressivi, offensivi, villani, passando dal tema della discussione alla persona del contendente (argumentum ad personam): è un appello delle forze dello spirito a quelle del corpo o all’animalità.
«L’unica controregola sicura è quella che già Aristotele dà nell’ultimo capitolo dei Topica: non disputare con il primo venuto, ma soltanto con coloro che disputano con ragioni e non in posizioni di forza, e che apprezzano la verità anche dalla bocca dell’avversario.
«La disputa, tuttavia, come attrito di teste, è spesso di reciproco vantaggio per la rettifica dei propri pensieri e anche per la produzione di nuove opinioni; ma entrambi i contendenti devono essere, per dottrina e intelligenza, quasi allo stesso livello».
Infatti non vale la pena discutere con chi, non potendo fare altro, offende anziché proporre la propria idea in maniera accettabile, del resto ognuno ha la propria natura e come dice un detto popolare: «Non si può far fare a un elefante il commesso in un negozio di ceramiche».
Daniela Larentis
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