Home | Rubriche | Pensieri, parole, arte | Libertà va cercando, ch’è sì cara… – Di Daniela Larentis

Libertà va cercando, ch’è sì cara… – Di Daniela Larentis

«…Come sa chi per lei vita rifiuta…» sono i versi che Virgilio rivolge a Catone nel I Canto del Purgatorio di Dante, un tema, quello della libertà, sempre attuale

image

Nel titolo è citata una figura di grande levatura morale, Catone l’Uticense, l’uomo che attraverso il sacrificio della sua stessa vita dimostrò il valore supremo della libertà (nonostante si fosse suicidato Dante lo collocò in Purgatorio come custode, in quanto egli scelse di morire per difendere la propria libertà).
Se ne è sempre parlato tanto, ne hanno parlato a lungo anche molti filosofi, la libertà è un ideale in nome del quale molte persone sono state e sono pronte a sacrificare la propria vita per raggiungerla o per mantenerla.
 
Molti sono stati i popoli che sono insorti per ottenerla o riaverla, pensiamo banalmente alla Rivoluzione francese del 1789, ma gli esempi sono infiniti e anche molto attuali.
Tuttavia, cosa significa per noi che già godiamo di questa condizione (o almeno siamo convinti di goderne) essere «liberi» esattamente?
Che significato diamo a questa parola nella quotidianità?
 
Ogni individuo ha la sua personale idea a riguardo, anche se questo concetto per molti versi esprime delle opinioni condivise da tutti (un popolo è per esempio definito «libero» quando non è assoggettato a un dominio straniero).
Nella vita di tutti giorni ci riteniamo «liberi» quando non abbiamo impegni e obblighi, quando abbiamo l’impressione di non subire particolari costrizioni.
Ma quando lo si è davvero?
Essere liberi significa solo vivere senza particolari imposizioni?
Vuol dire solo poter esprimere la propria opinione (che è già una gran cosa di per sé)?
 
Il principio della libertà, naturalmente, è inteso anche in senso più ampio: libero non è solo naturalmente chi fisicamente non vive in prigionia, ma anche chi può compiere delle scelte in modo autonomo e molto, molto altro.
Per esempio uno così si sente quando può essere se stesso, quando non è costretto a doversi snaturare per sopravvivere, quando può mostrare la sua vera natura, naturalmente nel rispetto anche degli altri, senza ledere i diritti del prossimo.
Inutile dilungarsi. Interessante, invece, è il pensiero di un grande scrittore del Novecento, trasmesso attraverso una leggenda tanto incantevole quanto profonda.
 
Nel celebre racconto di Stefan Zweig, «Gli occhi dell’eterno fratello» (edito da Adelphi – traduzione di Ada Vigliani), nelle prime pagine è riportata questa citazione tratta dalla «Bhagavadgita, Canto terzo» (un poema a contenuto religioso molto caro agli induisti): «Non se eviti qualsiasi azione/Sarai davvero libero dall’agire,/ ma potrai essere libero dall’agire/neppure per un solo istante».
 
Il famoso scrittore austriaco, gran viaggiatore, nonché poeta, giornalista e drammaturgo, nacque a Vienna nel 1881, figlio di un ricco industriale ebreo.
Celebri furono le sue biografie (fra le tante quella di Maria Antonietta e di Maria Stuarda, tanto per citarne alcune) e le sue novelle; durante la sua vita scrisse moltissimo, romanzi, saggi, poesie e molto altro.
Pubblicò «Gli occhi dell’eterno fratello» per la prima volta nel 1922, un racconto assai amato dall’amico Hermann Hesse (il quale apprezzò molto anche i suoi romanzi), incentrato sul tema della giustizia, in cui viene espressa la volontà del protagonista di distaccarsi dalla violenza, un testo che evidenzia come le scelte individuali possano influenzare la vita degli altri e non solo la propria.
 
È la storia del nobile indiano Virata, il guerriero stimato e rispettato da tutti, detto «Lampo della spada», che accidentalmente, assaltando di notte l’accampamento nemico (nobili rivoltosi capeggiati dal fratello della moglie del re Rajputa) in una battaglia a difesa del re, uccide il fratello Belangur e poi decide di rinunciare alla violenza (pag. 21): «Permettimi mio re, che questa spada resti nella camera del tesoro, perché in cuor mio ho promesso di non impugnarne più nessuna da quando oggi ho ucciso mio fratello…»
Egli non vuole nemmeno più giudicare il prossimo, poiché si convince che chi condanna qualcuno a una pena non si renda conto in realtà cosa significhi riceverla.
 
«Esonerami dalla mia carica! Non sono più in grado di pronunciare una sentenza da quando so che nessuno può essere giudicato da un altro.
A Dio spetta punire, non agli uomini, perché chi si intromette nel destino di un uomo incorre nella colpa.
E io voglio vivere la mia vita senza colpa» Questo è ciò che dice al re, cercando di giustificare la sua scelta. (pag. 43).
Rifiuta il mondo e ogni tipo di violenza, rinuncia così all’azione, dedicandosi invece alla vita contemplativa, immergendosi nella natura e cercando di restare lontano dalle passioni umane.
Si accorge però che anche in questo modo è impossibile non arrecare del male al prossimo e che sia agendo che non agendo non è possibile evitare la violenza.
Alla fine arriva alla conclusione che solo chi serve gli altri è davvero libero, chiedendo al re di divenire suo servitore, il quale così gli risponde (pag. 70): «Non ti capisco. Dovrei renderti libero, questo mi chiedi, e al tempo stesso mi preghi di affidarti un compito. Perciò sarebbe libero solo colui che si piega al servizio di un altro e non chi questo servizio lo impone?...»
 
Dopo essere stato prima giudice, cittadino, poi asceta, alla fine diviene un guardiano di cani nella rimessa davanti al palazzo reale e tutti si dimenticano a poco a poco di lui, uomo un tempo tanto stimato e tenuto in considerazione dal popolo.
«I suoi figli si vergognavano di lui, giravano vilmente alla larga dall’edificio per non doverlo vedere…» (pag. 72).
 
Ma come egli stesso afferma nel racconto (pag. 71): «Davanti alla divinità nessuno val meno e nessuno vale di più».
Una verità a cui approda proprio attraverso quest’ultima esperienza, spogliandosi della sua volontà, servendo gli altri, liberandosi dalla colpa, come si legge qualche riga più avanti: «Può darsi che certi incarichi sembrino più elevati davanti agli uomini, mio re, ma al cospetto della divinità si equivalgono tutti».
 
Chissà se mai si sentì davvero libero questo grande personaggio, un uomo inquieto, alla ricerca di una pienezza, di una pace che tanto agognava.
Purtroppo si sa che morì suicida nel 1942, in Sudamerica, assieme a sua moglie.
Pare che poco prima di morire lui abbia scritto un messaggio nel quale dichiarava di aver lasciato l’Austria poiché la libertà era per lui «la cosa più essenziale del mondo», anche se non si conoscono le precise ragioni di quel gesto estremo. 
 
Daniela Larentis
[email protected]
 
Nell'immagine sotto il titolo la tela di Delacroix intitolata La libertà che guida il popolo

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande