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Da peccatori a Santi – Di Daniela Larentis

«È bene cercare di rimediare ai propri errori, impegnandosi a non ripeterli (meglio farne di nuovi che perpetuare sempre gli stessi… )»

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Sant’Agostino, nato a Tagaste nel 354, illustre filosofo, vescovo insigne e famoso teologo latino, ebbe una vita assai travagliata prima di scrivere le sue celebri «Confessioni».
Non sto qui a dilungarmi (è ben nota la sua biografia), a ogni modo tanto per citare qualche singolo aneddoto, risalente a prima della sua conversione al Cristianesimo, da adolescente mise incinta una donna più grande di lui, con la quale andò a vivere e dalla quale ebbe un figlio, Adeodato.
 
Professore di Grammatica e di Retorica ancora giovanissimo, da Cartagine si trasferì a Roma, quindi a Milano; lasciò la sua compagna dopo molti anni e si può dire che la sua vita amorosa fu ancora piuttosto movimentata.
Poi, conobbe sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e da quel momento la sua vita cambiò radicalmente, tanto che nel 387 lui e suo figlio Adeodato, durante la veglia pasquale, ricevettero il battesimo, proprio da Sant’Ambrogio in persona, dopodiché si recò in Africa dove fece costruire un monastero, vivendo là da eremita (fino a quando venne nominato Vescovo di Ippona).
In quel periodo scrisse vari testi («La città di Dio», «La Trinità», «La Dottrina cristiana» e altri), fra cui «Le Confessioni», un’opera autobiografica che è la storia della sua maturazione religiosa, considerata fra i massimi capolavori della letteratura cristiana.
Fra le varie cose, egli riteneva che l’uomo, sebbene creato a somiglianza di Dio (il quale non commette il male, essendo infinitamente buono), conosce il male e può compierlo, mediante il libero arbitrio (infatti, può decidere se perseguire il bene o il male).
 
Uno degli argomenti da lui trattati è la polemica contro il pelagianismo. Pelagio (che fu un monaco irlandese vissuto a cavallo del IV e V secolo d.C.) sosteneva che l’uomo è responsabile delle proprie azioni e che la salvezza di ognuno può essere raggiunta senza necessariamente l’intervento di Dio, purché si sia indirizzati al bene, mentre per Agostino l’uomo non può assolutamente farcela con le sue sole forze, essendo macchiato dal peccato originale, ragion per cui è in grado di salvarsi solo mediante la Grazia divina.
(Il peccato originale fu quello compiuto da Adamo ed Eva, progenitori dell’umanità, e rappresenta la volontà dell’uomo di voler decidere da solo cosa sia bene e cosa sia male, la sua disobbedienza verso Dio).
 
Quella del peccato originale è una faccenda alquanto complicata, tanto che, per esempio, Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea, autore del saggio «L’anima e il suo destino» (Raffaello Cortina Editore), scrive nel suo libro a pag. 165 che «il dogma del peccato originale, così com’è presente nella dogmatica cattolica, fa acqua da tutte le parti» e ne argomenta le ragioni.
Inoltre, parlandone alla pagina precedente cita un passo del Catechismo della Chiesa Cattolica che fa riflettere (art. 404): «La trasmissione del peccato originale è un mistero che non possiamo apprendere appieno».
Se è vero che ovviamente non tutto ciò che non si può comprendere è da rifiutarsi, è anche vero che alcune volte capita che ciò che si fatica a spiegare è più comodo celarlo dietro il paravento del mistero.
Chissà se sia questo il caso, naturalmente io proprio non lo so, comunque, qualunque sia la questione, che abbia avuto ragione Sant’Agostino o Pelagio, poco importa in fondo, resta il fatto che Agostino prima di divenire Santo fu anche lui un peccatore, come lo fu San Francesco d’Assisi e, azzardo, tutti i Santi in cielo, nonché tutti gli uomini. Evidentemente, proprio in quanto umani non perfetti.
 
San Francesco d’Assisi, uno dei santi più venerati al mondo (il nostro attuale Papa, Jorge Mario Bergoglio, eletto nel conclave del 2013, ha assunto il nome pontificale di Francesco, in suo onore), nacque nel 1182 in una famiglia borghese della città.
Indirizzato dal padre a prendere il suo posto negli affari commerciali di famiglia, da adolescente, amante della vita mondana, non fu poi sempre così santo.
Nel bellissimo libro a lui dedicato, «San Francesco d’Assisi» di Giuseppe Crescimbeni (edito da Reverdito), viene descritto un episodio risalente alla sua giovinezza che ci mostra un Francesco più umano e assai diverso da come noi tutti lo immaginiamo (pag. 51, capitolo «Lui e il mendicante»).
«Un giorno Francesco era a bottega e stava dandosi daffare attorniato da gentildonne che lanciavano gridolini di stupore e di ammirazione ogni qual volta il giovane commesso stendeva sotto i loro occhi i preziosi rotoli. La mattinata prometteva davvero bene. Anche Pietro se lo sentiva; e perciò gironzolava per la bottega lisciandosi la barbetta.
«Al pensiero dell’incasso, e lui sapeva tirare i conti in un battibaleno, gli veniva l’acquolina in bocca. D’un tratto, come per maleficio, quella scena parve deturpata. La rovinò l’ingresso di uno straccione che puzzava più di una capra. Mentre le gentildonne smettevano di squittire davanti ai damascati e restavano sbalordite per la temerarietà di quel mendicante, questi si rivolse a Francesco e gli chiese elemosina in nome di Dio, ricavandone un brusco invito ad andarsene al più presto prima che qualcuno lo prendesse a calci.
«Il poveraccio sapeva che il giovinetto aveva fama, fra i mendicanti, di signore che non negava mai una moneta. E perciò rimase come inebetito. Ma s’affrettò a guadagnare la porta della bottega e ad allontanarsi sulle gambe malferme. Come nulla fosse accaduto, Francesco riprese a sfoggiare il sorriso e a cavar fuori il meglio del suo repertorio.
«Però sentì dentro si sé qualcosa che saliva, quasi provenisse dal profondo della coscienza. Avvertì una voce che gli diceva: Ti saresti comportato così se quel poveretto fosse stato figlio di un conte o di un duca e non avesse invece chiesto elemosina soltanto in nome di Dio?…»
 
Sarà anche stato un peccatore, ma San Francesco è stato soprattutto un uomo eccezionale, una delle persone più straordinarie mai vissute al mondo.
Egli, abbandonata la vita agiata, si dedicò anima e corpo ai poveri e ai lebbrosi, la sua vita e la sua opera è nota davvero a tutti. Chi non ricorda il «Cantico delle Creature», la sua meravigliosa lode a Dio, una preghiera che rappresenta un intensissimo inno alla vita?
 
Lasciando perdere i santi, c’è da dire che anche noi comuni mortali, pur peccando, possiamo ambire se non certo alla santità, almeno al rispetto dei nostri simili, poiché quello che conta non è tanto sbagliare (non ho mai conosciuto nessuno che non lo abbia mai fatto in nessuna circostanza), ma cercare di rimediare ai propri errori, impegnandosi a non ripeterli (meglio farne di nuovi che perpetuare sempre gli stessi).
Battute a parte, quello che vale, insomma, è tentare di vincere le proprie debolezze, cercando di migliorare, per il proprio bene e per quello degli altri. Perché vale il solito discorso, trito e ritrito: siamo tutti collegati e il bene fatto agli altri, come il male, è in realtà fatto a se stessi.
 
Daniela Larentis
[email protected]

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