Correre è un’arte – Di Daniela Larentis
«Determinazione e conoscenza dei propri limiti sono doti indispensabili per chi ama la maratona»
La maratona moderna è una gara di corsa sulla distanza di 42 Km e 195 metri (distanza ufficializzata nella maratona del 1924), l’evocazione sportiva della corsa che un messo fece, partendo da Maratona fino ad Atene, per annunciare la vittoria degli Ateniesi sui Persiani nel 490 a.C. e, al contrario di quanto si crede, non è la distanza esatta che intercorre fra le due città.
L’evento epico narra che il militare ateniese Fidippide (o Filippide), una volta arrivato a destinazione, abbia pronunciato la famosa frase: «Siamo vincitori» per poi cadere morto stecchito, stremato dalla fatica. Così narra appunto la leggenda.
Le cronache storiche scritte da Erodoto raccontano in modo molto esaustivo la battaglia consumata all’entrata della Valle di Vrana (il luogo più chiuso della pianura di Maratona). Secondo lo storico, infatti, l’esercito ateniese colse di sorpresa il nemico, fino a raggiungere le prime fila dei soldati persiani.
E il resto è storia (forse Erodoto ingigantì un tantino l’eroismo dei soldati ateniesi, comunque sia quella di Maratona, sebbene non fu una battaglia decisiva, passò alla storia, anche per la strategia vincente usata da Milziade che annullò con la sua tattica la superiorità dell’esercito persiano; egli infatti pensò bene di schierare le sue truppe in una stretta, ai piedi delle montagne).
C’è chi corre per professione. Stefano Baldini, per esempio, l’atleta che vinse l’Olimpiade di Atene nell’agosto del 2004, nel suo libro edito da Mondadori Maratona per tutti dichiarò: «Correre è la mia vita. È l’attività che mi riesce meglio, che scandisce il ritmo della mia giornata, che mi ha dato soddisfazioni inimmaginabili, che mi ha portato in giro per il mondo».
Valeria Straneo all’età di trentasette anni ha disputato una memorabile maratona sulle strade di Mosca proprio recentemente (e lo ha fatto dopo una malattia a cui è seguita l’asportazione della milza avvenuta nel 2010).
Una grande donna. Una persona che davanti alle difficoltà, anziché lasciarsi scoraggiare ha saputo reagire e combattere con grande determinazione. Ha saputo vincere (la medaglia d’argento).
Molte persone corrono con passione per i più svariati motivi: per divertimento, per stare in compagnia, per sfida, magari uscendo dall’ufficio e sognando di poter partecipare, un giorno, a maratone come quella di New York, Berlino, Chicago o magari Parigi, partendo dagli Champs-Elysees e terminando gloriosamente all’Arco di Trionfo, al centro della piazza Charles de Gaulle.
Si inizia magari per gioco, prima con qualche chilometro percorso con estenuante regolarità una volta alla settimana, poi si intensificano gli allenamenti e si approda quasi per caso alle prime gare di 5 e poi di 10 km, per arrivare in un secondo momento alle mezze maratone.
L’alimentazione cambia, raggiungere e mantenere il peso ideale diventa un must (anche un paio di chili in meno possono fare la differenza!), si inizia a indugiare spesso e volentieri innanzi alle vetrine dei negozi sportivi specializzati, dove una miriade di scarpe da running (non si osi chiamarle da ginnastica!) meglio se ammortizzate e neutre, leggere e progettate per favorire il movimento naturale dell’articolazione del piede, di tutti i colori e di vari pesi, fanno bella mostra di sé sugli scaffali vicino all’abbigliamento tecnico traspirante, concepito per agevolare la termoregolazione corporea (chi vuole correre sul serio e non vuol morire non si sogni lontanamente di usare un normale e rassicurante Kway!).
Certo, perché i piedi non sono mica tutti uguali!
Ci sono quelli normali (quelli che in spiaggia, sulla battigia, lasciano un calco che evidenzia nettamente sia l’avampiede che il metatarso e il calcagno), quelli piatti, quelli cavi, quelli molli e quelli rigidi e per ognuno va bene un certo tipo di scarpa appropriata.
A quel punto le parole «punta», «battistrada», «intersuola», «soletta» e via dicendo assumeranno un significato quasi biblico.
Subito dopo, sarà quasi un gesto naturale acquistare un berretto con visiera e un paio d’occhiali da sole, se sarà estate, al fine di evitare inutili contrazioni dei muscoli facciali e correre così in maniera più rilassante.
Arriverà il momento (arriverà di certo se non è già arrivato!) di acquistare il cardiofrequenzimetro, un orologio in grado di monitorare il cuore durante la corsa, calcolandone i tempi, la distanza percorsa, il passo, la frequenza cardiaca ecc. ecc., dotati di GPS e in grado di determinare perfino le calorie bruciate e chi più ne ha più ne metta (tutti dati che verranno poi scaricati direttamente nel computer).
E con esso l’istante tanto atteso e bramato, quello in cui prendere la decisione di iscriversi a una vera maratona, pianificando quindi (il verbo pianificare vi perseguiterà anche nel sonno) degli allenamenti spesso massacranti (durante i quali un semplice strappo sarà davvero la cosa più banale che vi potrà capitare).
È consigliabile infatti far precedere alla corsa degli esercizi di stretching al fine di allungare i muscoli e i tendini.
Se poi, per affrontare meglio la corsa, si avesse voglia anche di riscaldarsi un po’ attraverso una passeggiata a passo sostenuto, tanto meglio.
E se si vorrà evitare di correre sbilanciati in avanti, postura alquanto scorretta, ci si ricordi di tenere il busto eretto e perpendicolare al terreno.
Sì, perché correre è un’arte. Era dello stesso avviso anche lo scrittore Murakami che scrisse per l’appunto il libro «L’arte di correre» (edito da Einaudi Super Et), «una riflessione sul talento, sulla creatività e più in generale sulla condizione umana. L’autoritratto di uno scrittore-maratoneta, di un uomo di straordinaria determinazione, di profonda consapevolezza – dei propri limiti come delle proprie capacità, – di maniacale disciplina nel sottoporre il proprio fisico al duro esercizio della corsa…».
Haruki Murakami è uno scrittore e saggista giapponese, nato a Kyoto nel 1949, tuttora vivente.
Ha scritto numerosi romanzi, fra cui La ragazza dello Sputnik e Kafka sulla spiaggia. Fra i suoi saggi vi è appunto L’arte di correre, scritto fra l’estate del 2005 e l’autunno del 2006, nel quale traccia un resoconto cronologico delle diverse esperienze vissute.
Ecco cosa si legge a pag.97: «Quando partecipo a una maratona, alla fine ho soltanto un desiderio: arrivare al traguardo il più presto possibile e fermarmi, finire la gara. Non penso a nient’altro. Quella volta nell’Hokkaido, invece, quell’idea non mi ha nemmeno sfiorato.
«Arrivare al termine costituiva soltanto una spezzatura provvisoria, priva di vero significato. Come nella vita. Il fatto che a un certo punto finisca non basta a darle un senso. Stabilire un punto finale provvisorio è soltanto un espediente, oppure una metafora indiretta della sua natura limitata.
«Pensieri molto filosofici. In quel momento però non mi sembrava di filosofeggiare. Era qualcosa che comprendevo direttamente con il mio corpo, senza esprimerlo a parole.»
E qui di seguito riporto ciò che è scritto a pag. 98: «Anche in quello stato d’animo, quando ho tagliato il traguardo a Tokoro, mi sono sentito veramente felice.
È naturale, si è sempre felici quando si taglia il traguardo di una corsa molto lunga. Questa volta ero anche leggermente esaltato. Ho alzato in aria la mano destra stretta a pugno.
Erano le 4.42 del pomeriggio, dalla mia partenza erano passate undici ore e quarantadue minuti. Dopo mezza giornata, finalmente potevo sedermi a terra, asciugarmi il sudore, bere tutta l’acqua che volevo, allentare i lacci delle scarpe e, nella luce che lentamente volgeva al tramonto, far fare alle caviglie uno stretching scrupoloso.
Non avevo compiuto un’impresa di cui andare particolarmente fieri, ma a quel punto un senso di soddisfazione, un miscuglio di gioia e di sollievo mi ha gonfiato il petto, perché mi rendevo finalmente conto di qualcosa: avevo ancora la forza di affrontare di mia spontanea volontà un rischio e di riuscire bene o male a superarlo.
Può darsi che il sollievo fosse più forte della gioia. Sentivo sciogliersi a poco a poco dentro di me una sorta di nodo duro e stretto, della cui presenza non ero mai stato consapevole.»
Per Murakami correre è un po’ come scrivere e anche a me piace questa similitudine: in entrambi i casi vi è la necessità di mantenere un ritmo costante, inoltre sia nella corsa che nella scrittura gli sforzi sono finalizzati al raggiungimento di un progetto a lungo termine.
Così i chilometri percorsi giorno dopo giorno sono in fondo come le righe che si susseguono rincorrendosi sul monitor del proprio Pc: una fatica che è anche un divertimento, dove la soddisfazione intrinseca per ciò che si sta facendo supera di gran lunga ogni risultato ottenibile.
Daniela Larentis
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