L’insidioso vizio del gioco – Di Daniela Larentis
Peccato che la «Dea Bendata» venga quando vuole e baci chi le pare e piace
C’è chi perde la testa per le donne e chi per il gioco. Solo che quest’ultimo vizio, a mio avviso, è assai più pericoloso.
Il giocatore incallito perde spesso la cognizione del tempo, inventa bugie, abbandona abitudini, amici e sperpera, sperpera, sperpera una grande quantità di denaro, rincorrendo la scellerata idea che un giorno la fortuna busserà alla porta e allora tutto cambierà.
Cosa spinge una persona a intravedere nell’infido gioco una forma di possibile riscatto, una speranza da dover assolutamente coltivare, un rischio che vale la pena correre?
E chi lo sa, quello che è certo è che nella vita non si può affatto contare sul fattore fortuna (almeno non sempre), perché la «Dea Bendata» viene quando vuole, bacia chi le pare e piace e trasmette la fortuna senza chiedere certo il permesso a chicchessia.
Aristotele era convinto che la fortuna fosse un singolare tipo di «caso», una causa accidentale nelle cose che accadono per scelta in vista di una finalità.
Nel Rinascimento la fortuna veniva rappresentata con le sembianze di una fanciulla con gli occhi bendati, la quale si divertiva a elargire doni facendoli cadere da un corno.
Comunque sia, la fortuna è cieca, ossia non guarda in faccia a nessuno, ragion per cui è inutile e assurdo far conto su qualcosa che sfugge al nostro controllo.
Il pittore Michelangelo Merisi, conosciuto con il nome di Caravaggio, realizzò nel 1594 un dipinto a olio su tela, rappresentando magistralmente una truffa, in cui raffigurò due giovani intenti a giocare a carte (è presente anche un «baro» che è in combutta con il suo compare, mentre il giovane ingenuo è intento a scegliere una carta; sembra quasi di avvertire la concentrazione di quest’ultimo, mentre gli altri due imbroglioni fremono d’impazienza).
La scena ritrae il gioco dello «zarro» (bandito durante il Rinascimento da un editto del Duca di Milano Francesco Sforza, poiché ritenuto un gioco socialmente pericoloso), ed è uno dei capolavori di uno fra i più grandi pittori italiani di tutti i tempi; essa contiene un monito morale, una condanna al vizio del gioco (foto seguente).
Tale vizio è un tema che Dostoevskij (celeberrimo scrittore e filosofo russo, considerato uno dei maggiori romanzieri e intellettuali dell’Ottocento, famoso per i suoi romanzi fra cui, solo per citarne alcuni, «I fratelli Karamazov», «I demoni», «L’adolescente», «Delitto e castigo» e «L’idiota») trattò nel suo libro intitolato «Il giocatore».
Il vizio del gioco acceca uomini e donne di tutte le età e di tutte le classi sociali anche ai giorni nostri, tanto da essere considerato, non a torto, una vera e propria piaga sociale.
In questo romanzo Polina e Aleksej sembrano uscire dalla vita realmente vissuta dello scrittore: Dostoevskij fu notoriamente innamorato di Apollinarija Prokof’evna Suslova (chiamata da lui Polja o Polina), con la quale aveva un’intensa e tormentata relazione (interrotta poiché lei si invaghì di un giovane spagnolo, storia che poco più tardi finì ).
I due, comunque, pare che rimasero legati come amici per lungo tempo, anche a seguito di varie vicissitudini e dopo il matrimonio di lei con lo scrittore Vassilij Rozanov, di una quindicina d’anni più giovane.
In realtà lei avrebbe voluto a quel punto un rapporto fraterno con Dostoevskij, mentre lui provava ancora per lei una forte passione, così come provava un forte interesse per il gioco d’azzardo (rinunciò a questo vizio solo nel 1871, come si legge nella prefazione della curatrice Serena Prina del libro «Il giocatore» - Fëdor Dostoevskij - nell’edizione I Classici Universale Economica Feltrinelli).
Il romanzo, che presenta diversi personaggi, tipologie differenti di giocatori di cui delinea in modo molto efficace i tratti morali, e analizza il gioco d’azzardo, fu scritto per pura necessità, poiché Dostoevskij doveva estinguere dei debiti di gioco ed era incalzato dagli editori a cui aveva promesso il libro (contemporaneo di «Delitto e castigo» iniziato a pubblicare a puntate nel 1866). Un fortunato libro che, grazie anche alla giovane e capace stenografa Anna Grigor’evna Snitkina, sua futura moglie, uscì infatti lo stesso anno e divenne un capolavoro.
Il capitolo XVII si chiude amaramente con la seguente considerazione.
«…Puntai il fiorino sul manque (quella volta fu sul manque), e, davvero, c’è qualcosa di particolare nella sensazione che si prova quando, da solo, in terra straniera, lontano dalla patria, dagli amici e senza sapere se quel giorno mangerai, punti l’ultimo fiorino, l’ultimo, proprio l’ultimo!»
L’attrazione fatale per un gioco che per taluni non è affatto un «gioco», ma una dipendenza.
Una malattia che illude e annienta. Che promette e getta nella disperazione più nera. Che uccide (se non il corpo, talvolta anche quello, lo spirito).
Quell’emblematico «Domani, domani tutto finirà» lascia davvero l’amaro in bocca, soprattutto se si pensa che vi sono persone che, proprio grazie al gioco, hanno perso tutto, non solo la casa e i propri beni personali, ma spesso anche la famiglia.
Gli affetti più cari. La propria vita.
Daniela Larentis
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