Ma noi ci vediamo come ci vedono gli altri? – Di Daniela Larentis
«Chi siamo? Forse, semplicemente le tante facce di un unico luminoso prisma, attraversato dalla luce divina del tempo»
Luigi Pirandello, scrittore e poeta italiano nato ad Agrigento nel 1867, nel suo famoso romanzo «Uno, nessuno e centomila» mise a nudo una semplice verità e cioè che le persone che ci circondano ci vedono e ci valutano in modo diverso da come lo facciamo noi.
Impregnato di interrogativi, questo romanzo è in realtà una profonda riflessione sulla percezione del sé.
Il protagonista, partendo dalla scoperta di avere il naso leggermente pendente, a seguito di un distratto commento della moglie, si avventura in una serie di meditazioni che lo porteranno allo sfacelo. Ecco di seguito una sua considerazione.
«Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui, e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo pensiero del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
«Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere…»
Inizierà infatti, proprio per uscire da quella situazione, a compiere azioni tanto assurde quanto improbabili, nel tentativo di scardinare le convinzioni che gli altri si erano fatte di lui, fino a essere ritenuto pazzo, in una totale frantumazione dell’io e nel convincimento che la realtà muta incessantemente ed è una continua evoluzione.
E’ come se , alla fin fine, avesse voluto uccidere i centomila sconosciuti che vivono negli altri e avesse voluto scardinare le centomila opinioni che gli altri avevano di lui.
E quelle parole: «Come sopportare in me questo estraneo? Questo estraneo che ero io stesso per me? Come non vederlo? Come non conoscerlo? Come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto dalla mia?» non sono forse dubbi che ad alcuni (e forse più che ad alcuni, a parecchi) sono sorti, di tanto in tanto, più o meno inconsciamente riguardo a sé?
Chi non si è mai, almeno una volta nella vita, sentito estraneo a se stesso?
A ogni modo, quello che ci si chiede dopo aver letto il libro è «La realtà è oggettiva?»
È giusto affermare, al contrario, che l’uomo, come suggerì attraverso il suo romanzo Pirandello, non è «uno», quindi non un essere unico per tutti, ma composto da diversi «se stesso»?
Quest’idea ha davvero molto fascino e colpisce. Impressiona perché sottintende una verità condivisa. Intuita.
Chi siamo noi? Siamo quella persona che ora ci guarda con una punta di curiosità dallo specchio, proprio qui davanti a noi?
Siamo forse i figli, proprio quei figli che i nostri genitori hanno generato ? Siamo come ci vedono loro?
«Nemo propheta in patria» pare avesse detto Gesù nei Vangeli (Luca, 4, 24; Matteo, 13, 57; Marco, 6,4; Giovanni, 4, 44;), ossia praticamente «nessuno è profeta nella sua patria» (leggasi: è più facile che le proprie capacità e qualità vengano riconosciute in un ambiente nuovo che non nel proprio).
O siamo i genitori, a nostra volta e talvolta, dei figli che abbiamo messo al mondo (ammesso di averlo fatto)?
Siamo come loro ci valutano? O siamo i fratelli dei fratelli che conosciamo?
Già, conosciamo davvero? Ma siamo sicuri di essere proprio quelli o siamo i vicini, per i vicini, i parenti, per quei parenti, gli amici fidati per i nostri amici, i colleghi per i nostri colleghi, gli amanti per i nostri compagni o mariti o mogli.
Chi siamo? Noi chi siamo? E’ lecito chiederselo. Prima o poi se lo chiedono tutti. Siamo questo o siamo quello? Chi si è davvero?
E se si è buoni (capita talvolta), per esempio, si è buoni perché qualcuno ci ha giudicato buoni, o siamo buoni davvero? O siamo anche un po’ cattivi?
E con chi siamo buoni e con chi siamo cattivi? Ma siamo più buoni o più cattivi o semplicemente siamo l’uno e l’altro o nessuno dei due?
E se fossimo solo buoni, potremmo, dico, potremmo essere anche un po’ cattivi, di quando in quando? Rimarremmo comunque buoni per alcuni, o no?
O una volta che si è cattivi per qualcuno anche l’essere buoni per qualcun altro va su per il camino?
E se invece fossero due cose separate? È possibile essere se stessi ma diversi, a seconda di chi ci troviamo di fronte?
Così uno può essere estremamente simpatico per qualcuno, totalmente antipatico per qualcun altro, risultare indifferente a taluni ed essere osannato da altri, restando comunque se stesso.
Unico. Essere. Multiforme.
Siamo ad ogni modo ciò che ci si aspetta da noi o qualcosa di dissimile?
Chi siamo, davvero, noi? Qual è l’«io» più autentico? Quello che più ci corrisponde, qual è la caratteristica che più ci descrive? Qual è la nostra maschera più vera?
QUAL E’ LA NOSTRA MASCHERA PIU’ VERA?
Chi “non” siamo? Non siamo nessuno, confusi nella massa o siamo centomila persone diverse?
Chi siamo? CHI SIAMO? CHI CHI CHI SIAMO?
Siamo quello che siamo o quello che vogliamo essere?
Siamo ciò che appariamo, solo ciò che percepiamo di noi stessi o che gli altri immaginano di noi?
Siamo l’abito che portiamo, la macchina che guidiamo, la casa che abitiamo, l’animale che adottiamo, l’amico che scegliamo (mi riecheggia nella mente come un mantra il detto popolare: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei»…) o qualcosa di assolutamente diverso? Contrario? O magari simile?
Siamo quello che crediamo di essere? O che vogliamo far credere? O che speriamo di divenire?
Siamo, forse, semplicemente le tante facce di un unico luminoso prisma, attraversato dalla divina luce del tempo?
Io, davvero, non lo so. Quello che è certo è che siamo.
Ognuno di noi si illude di essere qualcuno che magari è.
Magari non è.
Dipende dal punto d’osservazione. Dipende da chi guarda e da come ci si guarda. Da come ci si considera. C’è chi vede luce nel prossimo e chi scorge solo il buio.
La verità è che siamo fatti tutti di ombre e luci e non c’è molto da aggiungere.
La conclusione del romanzo è profonda e lascia in bocca un retrogusto amaro e al contempo dolce.
In quel «Nessun nome. Nessun ricordo oggi nel nome di ieri”e soprattutto in quelle righe “ Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo».
La verità, anzi, una delle verità, visto che non esiste una verità assoluta, è che noi siamo NOI, siamo le nostre idee, le nostre convinzioni. I nostri dubbi.
Siamo i nostri errori. Siamo le nostre conquiste. Siamo i nostri pensieri più belli, le nostre giornate felici, siamo i nostri giorni più tristi.
Siamo ciò che vogliamo essere, ciò che intendiamo raggiungere. Siamo i nostri sogni. Siamo i nostri desideri. I nostri sorrisi. Siamo ciò che immaginiamo di divenire.
Siamo viaggiatori.
Viaggiatori nel tempo. Il nostro tempo. Proprio «nostro», di tutti noi, perché dal punto di vista temporale, ora, proprio ora, siamo tutti qui, a far cosa di preciso, proprio non è dato saperlo.
Ma qualcosa, sì. Qualcosa d’importante. Qualcosa di unico. Qualcosa di particolare. Qualcosa di magico. Qualcosa di irripetibile.
Qualcosa di sbalorditivo. Qualcosa di eccezionale. Qualcosa di assolutamente straordinario.
Vivere.
Daniela Larentis
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