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Chi non ci ama non ci merita! – Di Daniela Larentis

«Meglio non giudicare con cattiveria chi ci vive attorno; è però doveroso, al momento giusto, prender posizione e non stare pavidamente all’ombra»

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Nel 1916, a Venezia, Gabriele D’Annunzio, immobile e gravemente ferito a un occhio a seguito di un disastroso incidente aereo, scrisse l’opera in prosa «Notturno».
Per farlo si servì di circa diecimila pezzi di carta (cartigli) sui quali annotò, riga per riga, l’intero testo di quello che è considerato da molti il suo capolavoro.
Ecco cosa si legge a pag 216 (edizione Mondadori del 1953):
 
Quel merlo sciocco, quanto m’infastidisce!
Canta tutto il giorno senza mai variare il suo sgraziato verso.
Sembra uno degli innumerevoli miei giudici.
E chi mai al mondo fu più giudicato e più condannato di me?
Vedo un concilio di giudici vermi sopra la mia salma non composta.
Un mio amaro compagno di guerra mi disse un giorno dello scorso ottobre, su la passerella dell’Isonzo a Gradisca: «La sorte mi conceda di morire in modo che gli uomini non possano più giudicarmi…
 
Quanti possono affermare, onestamente, di non essersi mai sentiti giudicati?
Molte persone passano la vita classificando i propri simili tanto frequentemente da fare del giudizio la loro ragione di vita.
Nel 1967 il cantante Pierre Antoine Muraccioli (per tutti Antoine), ricordato più semplicemente come Antoine, così cantava: 
 
Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre.
Sei bello e ti tirano le pietre.
Sei brutto e ti tirano le pietre.
Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai…
 
Canzonette a parte, Antoine una verità l’aveva colta davvero e cioè quella che qualsiasi cosa si faccia ci sarà sempre una parte di mondo che sarà d’accordo con il nostro agire, mentre l’altra metà non lo sarà affatto.
Io credo che alla base del meccanismo che spinge certe persone a valutare continuamente i propri simili, ci sia l’inconsapevole necessità di spostare l’attenzione da se stessi agli altri, sentendosi a questo modo migliori di loro.
 
Non soffermarsi ad analizzare i propri comportamenti e rivolgere l’attenzione verso il prossimo infatti è molto comodo.
Si evita un’autoanalisi che potrebbe portare anche a risultati spiacevoli, come un calo della propria autostima, mentre stabilire le altrui colpe pone se stessi comunque in una posizione temporaneamente più favorevole (fino a quando non si commetterà lo stesso sbaglio, naturalmente).
 
Senza tirare in ballo Gesù, che esortò i discepoli a non giudicare per non essere a loro volta giudicati (Discorso della Montagna, Matteo, 7,1; Luca 6,37) è consolante pensare che in fondo non si può piacere a tutti, ossia «tante teste, tante idee» come cita un noto proverbio.
I giudici direbbero «In dubiis abstine», raccomandandosi di astenersi nel dubbio, infatti è molto meglio non aver giudicato che averlo fatto malamente, a mio avviso
 
Astenersi dal giudicare una persona, però, non significa non esprimere la propria opinione riguardo a un certo comportamento (senza naturalmente infierire mai), non schierarsi per vigliaccheria di fronte a determinate situazioni per salvaguardare interessi personali.
Non vuol dire stare sempre dietro le quinte per paura, non esporsi per calcolo (quanti lo fanno!), lavarsene le mani per timore.
 
«Ignavo» era colui che non prendeva una posizione certa e Dante disprezzava talmente questa tipologia umana, che «Colui che fece per viltade il gran rifiuto» venne da lui collocato, nel canto terzo della sua Divina Commedia, nell’Antinferno.
Chi sia stato questo personaggio non è dato saperlo, anche se, visto che lo stesso Dante non lo nominò, proprio per questo è ragionevole supporre che si sia trattato di qualcuno facilmente individuabile (forse Pilato? Forse Papa Celestino?).
 
Certo che se si fosse trattato proprio di Papa Celestino (il quale rinunciò alla sua carica poco dopo essere stato eletto papa) mi verrebbe da pensare che Dante, con tutto il rispetto e un’incommensurabile e inenarrabile ammirazione per lui, lo avrebbe in quel caso forse giudicato un po’ affrettatamente.
Vittorio Sermonti, scrittore, traduttore, docente, regista, poeta e grandissimo studioso di Dante, in uno dei suoi libri sulla Divina Commedia e precisamente in quello relativo all’Inferno, così scrisse riferendosi a Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, facendo notare che l’informazione era reperibile in una qualsiasi edicola della Città del Vaticano, nel depliant con i medaglioncini dei Sommi Pontefici.
 
San Celestino V. Nato ad Isernia. Eletto il 29.8.1294, morto il 19.5.1296. Uomo di eccezionale rettitudine e semplicità, resosi conto di essere uno strumento in mano ai potenti di quel torbido Medioevo, rinunziò al pontificato…
Senonchè, nella didascalia del papa successivo, Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, molto lodato per aver istituito l’Anno Santo e per diverse altre benemerenze, è omessa la notizia che fu proprio lui a istigare Celestino all’abdicazione, dopo nemmeno quattro mesi di pontificato.
E correva anche voce che, per impressionare il povero papa del Molise, il cardinal Caetani usasse presentarglisi in capo al letto, travestito da angelo, soffiando trucemente in una tromba.
Era poi di pubblico dominio che, dopo l’abdicazione, ne avesse accelerato la morte, relegandolo a soggiorno obbligato in una rocca della Ciociaria…
 
Forse Dante non si riferì a lui, quindi, piuttosto a qualcuno che potrebbe essere stato, per esempio, Diocleziano o un qualsiasi altro personaggio che non volle precisare.
Certo che parlando degli ignavi Dante li condannò a rincorrere qualsiasi straccio al vento (pena del contrappasso per contrasto) e a venir pungolati, completamente nudi, da mosconi e sciami di vespe; tutto ciò mentre il sangue colava loro fino ai piedi, dove un tappeto di vermi se ne imbeveva per l’eternità.
 
Insomma, è cosa saggia non giudicare a sproposito e con cattiveria chi ci vive attorno, perché tale pratica non fa evolvere spiritualmente, al contrario, impoverisce l’animo ed è un inutile spreco di energie. Altrettanto saggio è, al momento giusto, saper prender posizione e non stare pavidamente all’ombra.
Per comodo. Per mero interesse. Per vigliaccheria.
Pena: finire fra gli Ignavi per l’eternità, cosa, questa, alquanto sgradevole.
 
Dall’altra parte è meglio non crucciarsi dell’altrui giudizio; chi dice di non comprenderci rivolge a se stesso un mezzo insulto, alla fine dei conti, in più è giusto convincersi che l’inflazionato detto «Chi non ci ama non ci merita» celebra una grande verità.
Quindi, se si vuole volare liberi, meglio liberarsi della zavorra.
Chi ci incatena a terra costringendoci a uniformarci a delle aspettative che non potranno che essere disattese, non è degno della nostra attenzione.
È meglio ricordarlo, non si sa mai, a prescindere da tutto il resto.
 
Daniela Larentis

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