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Non è sempre facile adattarsi all’ingranaggio del mondo – Di Daniela Larentis

«Il poeta Rimbaud, una volta varcata la soglia dell’adolescenza, si ribellò fortemente al tipo di educazione impartitagli»

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Si parla tanto di solitudine nella nostra epoca, forse più che nelle precedenti. La solitudine, tuttavia, è un unico termine che descrive stati d’animo fra i più svariati.
Cosa significa, per esempio, sentirsi incompresi, diversi, tanto da scivolare, talvolta, nella disperazione più nera? È solitudine questa?
C’è chi si sente come su di un treno in corsa e, non avendo pagato il biglietto, si nasconde in bagno per quasi tutto il viaggio, in attesa di scendere.
 
Estraneo, in un mondo a cui non sente di appartenere fino in fondo, e unico spettatore di una rappresentazione a cui deve assistere, trascina stancamente il proprio disagio, giorno per giorno, come un carretto vuoto, senza la speranza di poterlo riempire .
Non è sempre facile adattarsi all’ingranaggio del mondo, ma c’è anche chi, profondamente inquieto, attirato dall’ estremo lato del vivere, attanagliato da un immenso senso di solitudine, divorato da sentimenti esasperati e desideroso di farsi disperatamente capire, non si sente unicamente spettatore, bensì anche attore e regista. Uno di questi era appunto il poeta Arthur Rimbaud.
 
Egli nacque nel 1854 in una famiglia borghese a Charleville, in Francia, ed è ricordato come «il poeta maledetto».
Studente brillante, dotato di una mente acuta e di una sensibilità del tutto particolare (tanto che già all’età di dieci anni inizia a comporre bellissimi versi e a quindici scrive l’Ofelia: |Sull’acqua calma e nera dormono le stelle, come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia…»), una volta varcata la soglia dell’adolescenza si ribellò fortemente al tipo di educazione impartitagli. Scappò di casa più volte e condusse una vita sregolata e completamente fuori dagli schemi, vivendo esperienze di ogni tipo anche molto forti.
 
Per lui l’amico e poeta Verlaine lasciò addirittura la moglie e lo seguì per mezza Europa nei suoi vagabondaggi, fino ad arrivare a sparargli, ferendolo a un polso, e finendo per questo addirittura in carcere.
Attraverso la sua poesia dai ritmi originali trasmise una tale forza vitale, che è impossibile non venir catturati e impressionati dalle sue intuizioni.
(Egli comunque finì col convincersi che la poesia non potesse in realtà cambiare il mondo, ragion per cui alla soglia dei vent’anni smise di comporre poesie , iniziando un incessante peregrinare che lo portò ovunque, fino in Africa).
 
Ma non è il suo discutibile stile di vita, il fatto che vivesse perennemente sopra le righe, che non riuscisse a trattenersi, oltre alla sua mancanza di moralità e alla consapevolezza di essere particolarmente intelligente a interessare davvero, tutt’al più ciò può far scaturire nei suoi confronti un moto di repulsione o al contrario di curiosità (mai di indifferenza).
Credo invece che parlando di Rimbaud sia interessante cercare di comprendere come, dietro alla sua breve vita (morì a soli 37 anni dopo l’amputazione di una gamba, a seguito di un tumore) fatta di abusi e alla sua assoluta incapacità di affrontare l’esistenza in modo normale, lui abbia in realtà compiuto qualcosa di veramente unico: egli ha fatto nella vita ciò che ha scritto, ha in un certo qual modo «realizzato» la poesia, e lo ha fatto con una tale potenza lirica da lasciare davvero stupefatti. Increduli.
Completamente sbalorditi.
 
Poesia, la sua, che si sviluppa attraverso immagini che non vogliono esprimere idee, ma sono esse stesse idee.
Secondo Rimbaud il poeta «deve sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni», perciò egli si buttò volontariamente in una vita di eccessi, senza porsi limiti.
Lui stesso scrisse: «Il poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa, ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni per non conservarne che la quintessenza…»
 
Considerato uno dei suoi capolavori, «Una stagione all’inferno», è una sorta di autobiografia in prosa che descrive la crisi che ha accompagnato i momenti più salienti della sua vita, gli eccessi, gli abusi, i deliri, attraverso suggestioni di grande effetto, per poi congedarsi da essi (chi volesse saperne di più può leggere «Opere in versi e in prosa – Una stagione all’inferno – Illuminazioni e altre poesie» – edito da Garzanti).
Parlare di Rimbaud, tuttavia, non è certo facile senza cadere nella banalità del giudizio affrettato, senza scivolare nel terreno insidioso dei moralismi spicci (in Africa lavorò pure come trafficante d’armi), quindi, a parte queste brevi informazioni, nulla voglio aggiungere se non ricordare una delle sue poesie, una delle più belle a parer mio, che è «Sensazione», scritta nel marzo del 1870 a soli 16 anni.
 
 «Sensazione» di Arthur Rimbaud
Nelle azzurre sere d’estate, andrò per i sentieri,
pizzicato dal grano, a pestare l’erba tenera:
Come in sogno ne sentirò il fresco sotto i piedi.
Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.
Io non dirò nulla, non penserò a niente:
ma l’amore infinito mi riempirà l’anima,
e andrò lontano, molto lontano, come un vagabondo,
attraverso la Natura, felice come quando si sta con una donna.
 
La poesia, del resto, non la si deve comprendere, ma la si deve sentire.
Essa ci trasporta magicamente in un’altra dimensione, dove più nulla conta se non il percepire sensazioni assopite che proprio grazie a essa si risvegliano, travolgendoci con tutta la loro forza vitale in un turbinio di commozione.
Nulla è più intimo di una poesia.
 
Daniela Larentis

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