Orwell parlò chiaramente nel suo libro «La fattoria degli animali» – Di Daniela Larentis
«Ora, com’è fatta questa nostra vita? Ammettiamolo: è infelice, gravosa e breve…»
Domenica 12 maggio a Trento si è potuto assistere a uno spettacolo tanto inusuale quanto affascinante: la transumanza, la migrazione stagionale di greggi.
Un intero gregge di pecore, infatti, accompagnato da un pastore e sotto l’occhio vigile di un paio di cani, ha attraversato Trento sud da ovest verso est, dando spettacolo di fronte a un pubblico improvvisato, rapito, lungo la circonvallazione, dall’inedito passaggio degli ignari quadrupedi.
Nei Vangeli vi è una parabola dedicata alla pecora smarrita, ma le pecore non godono generalmente di buona fama, c’è perfino un noto proverbio che le cita dicendo «È meglio vivere un giorno da leoni che cent’anni da pecora».
Nello straordinario libro di George Orwell, «La fattoria degli animali», esse ripetono il motto divulgato dai maiali (che prima incitano gli altri a ribellarsi dall’oppressore, l’uomo, e poi finiscono per fare altrettanto, imponendosi in modo tirannico sugli altri animali più deboli). Tale slogan, «Quattro gambe buono, due gambe cattivo», si riferisce all’uomo a cui gli animali della fattoria si ribellano (l’unico animale che consumi senza produrre).
Esse vengono considerate come gruppo e non come singoli individui e simboleggiano le masse facilmente manipolabili dal regime sovietico.
Per parlare di questo libro vorrei prima fare un breve cenno sull’autore. Eric Arthur Blair, noto con il nome di George Orwell, nacque nel giugno del 1903 nel Bengala. La sua famiglia, di origine scozzese, era impegnata in attività commerciali e amministrative nelle colonie britanniche.
Durante l’adolescenza ricevette un’ottima educazione, prima nel Sussex e poi a Eton, in una delle più prestigiose scuole. Dopo il diploma, tuttavia, non proseguì gli studi e nel 1922 si arruolò nell’Indian Imperial Police, che lo portò in Birmania, dove poco dopo si dimise dall’incarico, impressionato negativamente da ciò che aveva avuto modo di osservare.
Viaggiò in lungo e in largo, prima a Parigi dove iniziò a scrivere e dove lavorò come sguattero, poi in Inghilterra, in seguito a Barcellona, dove si arruolò alla fine di dicembre del 1937 nella milizia di un piccolo movimento antistalinista della Catalogna.
Dopo essere stato ferito alla gola da un cecchino franchista, fu costretto a lasciare la Spagna, poiché il movimento presso cui era arruolato venne dichiarato illegale dalle autorità repubblicane (scrisse così un resoconto delle sue esperienze nella guerra civile, il famoso «Omaggio alla Catalogna», 1938).
Dopo varie vicissitudini (divenne anche redattore letterario del settimanale socialista Tribune, dopo aver lavorato per la BBC e prima ancora dopo essersi arruolato nella Home Guard con il grado di sergente) nel 1943 iniziò a scrivere Animal farm (La fattoria degli animali), manoscritto che venne rifiutato da parecchi editori, in quanto alludeva in modo critico allo stalinismo, allora alleato con le democrazie capitalistiche contro il nazifascismo.
Minato nella salute, pochi anni dopo, nel 1948 scrisse uno dei suoi libri più riusciti, «1984», prima di finire in sanatorio nel 1949 e morire a Londra nel 1950.
La favola di Orwell (La fattoria degli animali, edito da Oscar Mondadori - collana classici moderni) altro non è che un’allegoria di tutte le rivoluzioni, in particolare di quella russa, gli intenti delle quali, una volta divenute regimi, vengono vanificati.
La morale la si legge chiaramente dentro le righe contenute nell’ultimo capitolo, «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri», uno dei sette comandamenti scritti sul muro dagli stessi animali, i quali si erano impegnati a seguirli, riconoscendoli quale legge inalterabile, e precisamente:
1. Tutto ciò che va su due gambe è nemico
2. Tutto ciò che va su quattro gambe o possiede ali è amico.
3. Nessun animale indosserà vestiti.
4. Nessun animale dormirà in un letto.
5. Nessun animale berrà alcolici.
6. Nessun animale ucciderà un altro animale.
7. Tutti gli animali sono uguali.
Ma andiamo per gradi.
La favola inizia con il racconto del Vecchio Maggiore, un maiale di razza Middle White, il quale aveva, durante la notte, fatto un sogno e decide di condividerlo con gli animali della fattoria.
Al vecchio maiale non resta molto da vivere (morirà tre giorni dopo aver fatto il suo discorso) e pensa quindi di trasmettere al resto del gruppo quel poco di saggezza che ha acquisito.
La sua riflessione è molto convincente. Rivolgendosi ai suoi compagni di stalla inizia il suo monologo.
«Ora, compagni, com’è fatta questa nostra vita? Ammettiamolo: è infelice, gravosa e breve. Nasciamo; ci danno quel po’ di cibo che ci consente di restare vivi; chi tra noi è in grado di lavorare viene costretto a farlo finché possiede ancora un briciolo di energia, e poi, nel preciso istante in cui la nostra utilità viene meno, ci macellano in maniera orrenda e crudele. Una volta compiuto il primo anno di vita, nessun animale di Inghilterra conosce il significato delle parole felicità e riposo…»
E ancora: «L’uomo è l’unico vero nemico che abbiamo. L’unica creatura che consumi senza produrre. Non dà latte, non depone uova, è troppo debole per tirare l’aratro, non corre abbastanza veloce da catturare un coniglio. Però è padrone di tutti gli animali.
«Li fa lavorare e in cambio concede loro il minimo necessario alla sussistenza, tenendo il resto per sé. Il nostro lavoro dissoda la terra, il nostro escremento la fertilizza, tuttavia non c’è fra noi chi possegga altro che la nuda pelle.
«Voi mucche, che vedo qui davanti a me, quante migliaia di litri di latte avete prodotto quest’anno? E che ne è stato di quel latte che avrebbe dovuto svezzare vigorosi vitelli?…»
Poi continua e, riferendosi agli uomini, dice «E non ci permettono neppure di giungere al termine naturale di una vita già tanto infelice. Non mi lamento per me, che sono tra i fortunati: ho dodici anni e, com’è naturale nel corso della vita di un maiale, ho avuto più di quattrocento figli. Ma alla fine nessun animale sfugge al coltello crudele…»
E poi conclude la sua lunga chiacchierata dicendo «Mi resta ancor poco da dire. Ma voglio ripetervelo: tenete sempre a mente che dovete essere nemici dell’Uomo e di tutte le sue abitudini. Tutto ciò che va su due gambe è nemico.
Tutto ciò che va su quattro gambe, o possiede ali, è amico. E ricordate inoltre che nel combattere l’Uomo non dovremo mai assomigliargli.»
Il libro si conclude molto tristemente. Gli animali, osservando i maiali impegnati in una partita a carte proprio con gli umani a cui finiscono per assomigliare nei comportamenti, tra il vociare concitato e le urla dei giocatori si accorgono che fanno fatica a riconoscere una specie dall’altra.
Alla luce di quanto sopra, chissà chi fra noi riuscirà, per qualche giorno almeno, ad addentare serenamente un panino al prosciutto, gustare una squisita tagliata di manzo adagiata su di un letto di soffice insalata o solamente farsi un semplice uovo alla coque, senza chiedersi, in fondo, se Orwell avesse davvero centrato nel segno…
Daniela Larentis
Commenti (0 inviato)
Invia il tuo commento