Giorgio Espen, pensieri sulla montagna – Di Daniela Larentis
Accademico del CAAI e Istruttore di alpinismo, ha iniziato ad arrampicare all’età di tredici anni. Da allora non si è mai fermato – Seconda Parte
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(Prima parte)
Come scrisse un grande alpinista, Reinhold Messner, nel libro intitolato «La vita secondo me» (Edizioni Corbaccio), «noi uomini da sempre ci confrontiamo col pericolo – diverso a seconda del tipo di società e del luogo in cui viviamo – e ci impegniamo per evitarlo…».
Aggiunge qualche riga più avanti, sempre nel capitolo quindicesimo dedicato al rischio: «Noi alpinisti corriamo volontariamente un’ampia serie di pericoli. I pericoli conosciuti, quelli che ci sembrano sottostare alla nostra influenza, alle nostre capacità – per esempio la caduta – crediamo di poterli ridurre al minimo prendendo delle precauzioni. Anche se talvolta anche questi ci portano alla morte…»
Continua qui di seguito l’intervista a un esperto della montagna, Giorgio Espen, Accademico, Istruttore di alpinismo, nel tentativo di capire quali siano le motivazioni che spingono gli alpinisti come lui a vivere la grande passione per la montagna, rischiando la propria incolumità ad ogni uscita ed accettando ogni volta il rischio di poterci rimettere la loro stessa vita.
Che rapporto c’è fra rischio e concentrazione?
«Nell’arrampicata è essenziale la concentrazione assoluta. Se raggiungi o ti avvicini al tuo limite e non sei concentrato al massimo, sbagli. Una percentuale di rischio a me serve per arrivare alla massima concentrazione. Senza il fattore rischio io non riesco a trovare la concentrazione.
«Amo queste sensazioni. Affrontare il rischio sapendo che se tu sbagli non hai possibilità di recupero, che rischi tutto, riuscire a dominare le tue emozioni e a dirigerle, è una cosa fantastica.
«Dirigere le tue emozioni anche negative, come la paura ecc., convogliandole e trasformandole in energia, in concentrazione, in qualcosa quindi di positivo, è straordinario: l’arrampicata ti permette di fare questo.
«Lo puoi ottenere su qualsiasi tipo di parete, su quella lunghissima e su quella semplice, è questo il bello dell’arrampicata.
«Non è importante il livello individuale, le sensazioni non sono legate alla difficoltà, ma al raggiungimento del proprio limite.
«È una cosa che spiego anche ai corsi, essendo io anche istruttore di alpinismo.»
Lei è istruttore di alpinismo, infatti, oltre che Accademico. Ci può dare qualche informazione sulla Scuola di alpinismo Graffer, tanto per dare l’idea di che cosa sia e a chi si rivolga?
«Ho intrapreso da un po’ di anni il percorso come istruttore alla Scuola di alpinismo Graffer, dedicata a Giorgio Graffer, la quale ha festeggiato da poco il 75° anniversario di attività (nel 2011 ho sostenuto gli esami dopodiché sono diventato istruttore di alpinismo). Da sei anni faccio parte anche del direttivo della scuola e sono vicedirettore della parte alpinistica, quindi roccia e ghiaccio.
«Tutti gli istruttori (fra cui figurano anche delle Guide alpine, in veste di volontari in questo caso) non sono pagati, ma svolgono la loro attività in maniera gratuita, sono dei volontari a cui sta a cuore cercare di trasmettere la passione per la montagna e le competenze ai futuri alpinisti, al fine di ridurre al massimo i rischi.
«La scuola offre corsi di roccia, di scialpinismo (in anni alterni anche corsi di scialpinismo evoluto, per chi è già in possesso delle competenze base), di montagna e presto, a partire dal 2016, anche corsi di arrampicata su ghiaccio.
«All’interno della scuola organizziamo 4 corsi tutti gli anni, per quanto riguarda la roccia uno primaverile e uno estivo, quest’ultimo tenuto in un rifugio della durata di una settimana (negli ultimi anni al Rifugio Agostini).
«Sono corsi base, fruibili dai 16 anni in poi (occorre essere iscritti al CAI, il tesseramento può avvenire anche all’atto dell’iscrizione, e questo perché il corso è coperto da assicurazione).
«Il Corso di Scialpinismo base, il Corso primaverile ed estivo di Roccia, il Corso di Alta Montagna, sono tutti e quattro corsi base. Ciò che è richiesto è un minimo di familiarità con l’ambiente montano.
«I requisiti necessari per l’iscrizione sono sapersi muovere in montagna, non occorre saper arrampicare, però ci vuole un’esperienza minima, essere andati già per sentieri, sapere in che luogo ci si sta muovendo.
«Non sono corsi di avvicinamento, sono corsi invece che insegnano ad affrontare la montagna e si rivolgono quindi a chi in montagna ci è già stato, a chi conosce questo ambiente.»
Una piccola curiosità: ci sono più istruttori maschi o femmine?
«Sicuramente maschi. Su 56 istruttori complessivi figurano solo 4 donne.
E come iscritti ai corsi?
«Negli ultimi anni le iscrizioni femminili sono aumentate, tanto che ora come ora il numero degli uomini iscritti equivale più o meno a quello delle donne, la presenza femminile è quasi paritetica.
«Le donne hanno acquisito maggiore autonomia anche nell’ambito della montagna: una volta si iscrivevano solo le compagne e le moglie di alpinisti, ora lo fanno a prescindere dall’esistenza di un legame con un alpinista maschio.
«Adesso non è certo infrequente imbattersi in cordate solo femminili, molte più ragazze, rispetto a un tempo, ora si iscrivono e vanno in montagna. In Germania e nel resto del Nord Europa ancor più che in Italia.»
Chi non è esperto può fare un po’ di confusione, talvolta, circa i termini usati nelle guide che parlano di montagna: ferrate, cordini, vie semplici, vie difficili, non tutti però capiscono esattamente il grado di difficoltà da affrontare scegliendo un percorso anziché un altro, anche quando si tratta di percorsi facili.
Potrebbe illuminarci in maniera molto sintetica e spiegarci come ci si può orientare a riguardo?
«Esiste naturalmente una classificazione ben precisa. Sinteticamente parlerei di sentiero, indicando una strada dove non serve nessuna protezione, può essere impegnativa, può essere esposta, ma si tratta di una camminata.
«Poi c’è il sentiero attrezzato, il quale prevede alcuni tratti orizzontali in cui c’è un corrimano, un cordino, in cui ci si può tenere o agganciare, in questo caso l’attrezzatura pur non essendo necessaria è comunque consigliabile.
«La ferrata invece richiede obbligatoriamente un’attrezzatura, ossia l’imbragatura, il set da ferrata omologato (sistema per agganciarsi ai cordini) e il casco.
«La Scuola Graffer, come ho già anticipato prima, accetta un’iscrizione nel caso in cui il richiedente abbia già un’esperienza minima, posseduta di solito da chi ha già fatto qualche semplice ferrata o da chi è già un buon escursionista.
«Seguendo questa classificazione da qui in poi inizia l’arrampicata, il che significa andare sul verticale senza il cordino di ancoraggio. Ci si autoassicura, procedendo in cordata.»
Da quante persone al massimo può essere composta una cordata?
«La cordata è la prima garanzia di sicurezza ed è composta al massimo da tre persone: minimo due, massimo tre. Quando c’è una persona sola si parla di arrampicata in solitaria, autoassicurata (si procede come in cordata) o solitaria pura (senza corda).
«In una cordata chi sta davanti viene definito “capocordata” e generalmente è la persona con più esperienza. Quando si è a pari livello si avanza in alternata, ci si alterna al comando della cordata.
«È comunque un lavoro di sinergia, spesso non conta chi è davanti e chi sta dietro. Chi segue il capocordata deve portare molto peso ed avere determinate caratteristiche fisiche, non solo, essere anche in grado di prendere il comando, se necessario.
«In ogni spedizione ognuno ha un ruolo ben preciso e i ruoli possono alternarsi.»
Viene mai sfiorato dall’idea della morte quando è in parete o è qualcosa a cui in quel momento non pensa?
«È sempre presente. È quel pensiero che mi tiene in vita mentre arrampico. Chi pensa che noi non abbiamo paura e che non siamo consapevoli di quale pericolo stiamo correndo, sbaglia completamente.
«Abbiamo una paura folle, sappiamo perfettamente cosa rischiamo, se non avessimo paura saremmo tutti morti perché non prenderemmo contromisure, supereremmo di molto il limite.
«È come pensare che un pilota di Formula Uno o di MotoGp non sappia esattamente cosa stia rischiando andando a 300 all’ora: sa perfettamente cosa rischia.
«È la medesima cosa in fondo, tu devi rimanere concentratissimo e sapere perfettamente che potrai avvicinarti al limite, ma tenendo presente che qualunque errore potrà costarti la vita.
«Si è consapevoli che qualunque sottovalutazione del pericolo si paga con la vita. Accetto questa possibilità. Io accetto la possibilità di sbagliare con tutte le conseguenze del caso, ma non per questo significa che non abbia paura, amo troppo la vita per rinunciarci.»
È anche una sfida con la montagna?
«No, non è una sfida con la montagna. La montagna non è un nemico, sono io che posso sbagliare e mettermi in pericolo.
«È sfidare i propri limiti, è mettere alla prova se stessi sapendo che si può morire se si compie un errore.
«L’alpinismo è una passione, possiamo definirla così innanzitutto perché non è misurabile. I cento metri puoi misurarli, l’alpinismo non è uno sport. L’arrampicata sportiva sì.»
Che qualità ha solitamente un alpinista, quali sono i tratti che lo definiscono, me lo potrebbe dire usando degli aggettivi?
«L’alpinista è amante della vita, è pignolo, preciso, rigoroso, estremamente calcolatore, estremamente allenato.»
Prima mi ha detto che Lei è stato occasionalmente apritore, ma che preferisce percorrere vie già aperte da altri.
Secondo Lei cosa spinge un alpinista ad aprire una via, si potrebbe dire che assecondi una sorta di impulso creativo?
«Certo, l’alpinista che apre una via è un po’ come l’artista che dipinge un quadro, lo fa anche per lasciare la sua firma e perché trova soddisfazione nel cercare una soluzione, nel trovarla.»
C’è qualche ascensione che le è rimasta nel cuore, qualche via a cui è affezionato più di altre?
«Ho nel cuore tutte le ascensioni che ho fatto. Sono affezionato particolarmente alla Via Livanos (lui è sempre stato il mio alpinista preferito) sulla cima Su Alto nel Gruppo dolomitico del Civetta, una via per me dal valore simbolico molto elevato e una via inoltre impegnativa.
«L’altra è di Reinhold Messner, il Pilastro di Mezzo sul Sass de la Crusc, ci sono affezionato perché quando avevo sedici anni leggevo i suoi libri e Messner per me era un mito, quindi percorrere quella via aperta da lui è stato un punto di arrivo importante, un momento davvero significativo.
«C’è una terza via a cui sono legato, non tanto per la difficoltà affrontata, è una via certamente difficile, ma per come la ho vissuta: lo Spiz di Lagunaz, parete ovest, diedro Casarotto-Radin, detto il “Diedro Nascosto”, uno dei posti più selvaggi delle Dolomiti.
«È stata un’esperienza parecchio stimolante, in quanto quando la ho fatta io aveva pochissime ripetizioni, non c’erano le relazioni, inoltre l’avvicinamento è stato particolarmente lungo e impegnativo, il ritorno lungo e complesso.
«Quando si compie un’ascesa il 70% del percorso si prepara a casa, con la pianificazione, la lettura delle guide, lo studio dell’itinerario, dell’avvicinamento, del rientro, dei piani alternativi e via dicendo.
«Compiere l’ascensione è il coronamento di tutto un lavoro eseguito prima per poter poi muoversi in sicurezza. Un’ascensione la si vive, la si sogna, la si agogna prima di recarsi sul posto fisicamente.»
Che tipo di arrampicata esegue?
«A me piacciono tutti i tipi di arrampicata, dall’arrampicata classica a quella artificiale, mi piace tutto quello che riguarda la roccia.
«Negli ultimi anni mi sono dedicato molto all’arrampicata sportiva, quella che più mi affascina resta comunque la classica.»
Parlando di montagna vengono in mente i numerosi incidenti di cui anche molti alpinisti esperti sono, purtroppo, talvolta vittime.
Che insegnamento si può trarre da una sciagura in alta quota, qual è il Suo pensiero a riguardo da esperto della montagna?
«L’errore in montagna si paga, soprattutto a certi livelli. Negli incidenti in montagna giocano due fattori: la casualità e purtroppo talvolta l’imprudenza.
«Chi pratica l’alpinismo si assume sempre un rischio: se uno vuole essere sicuro di non farsi male deve stare a casa.
«Le persone che non sono esperte devono affidarsi a un professionista, non si deve mai fare l’errore di sottovalutare un rischio.
Un’ultima domanda: gli alpinisti che come Lei amano arrampicare e che vivono la montagna percependola in maniera diversa dalla gente comune, in cosa secondo Lei si differenziano dalle persone che non vivono questo tipo di esperienza?
«Questo è ciò che si pensa generalmente degli alpinisti, che siano diversi dalla gente che non fa questo tipo di esperienza, in realtà non è così, gli alpinisti hanno vizi e virtù come tutti gli altri.»
Sogni nel cassetto?
«Ho moltissimi sogni e continuano ad aumentare paurosamente, alcuni sono realizzabili, altri sicuramente meno per tutta una serie di considerazioni, ma il bello è sognare, poi poco importa se si avvereranno tutti oppure no. L’importante è continuare a sognare.»
Una montagna di sogni, è proprio il caso di dirlo: del resto è proprio poter sognare che rende unica l’esperienza umana, perché come diceva il poeta libanese Kahlil Gibran «il desiderio è metà della vita».
Daniela Larentis – [email protected]
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