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Il padre dell'Afrobeat suona ancora – Di Miryam Scandola

A quindici anni dalla morte del musicista Fela Kuti, la Nigeria ricorda la sua lotta, a suon di musica, con un museo

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«Trouble sleep, Yanga wake am- quando il problema dorme, l'istigazione può svegliarlo.»
Cantava così nelle sue liriche incandescenti. Urlava così nella vita, Fela Anikulapo Kuti.
E con le sue grida e le sue note è riuscito, forse, a svegliarlo davvero il problema.
 
L'inaugurazione del museo «Kalakuta Republic» nel quartiere di Ikeja, tenutasi il 15 ottobre corso, non è che, secondo il figlio Seun Kuti, «il simbolo della lotta» che il grande poli-strumentista africano ha combattuto contro la sua Nigeria corrotta negli anni '70-'80.
Non si poteva e non si può contenere in un discorso quello che Fela è stato per il suo paese e, forse, anche per il suo continente.
 
Vate di un panafricanismo senza condizioni, demiurgo di un pensiero e di un'arte che in modo indiscriminato univano Malcom X ai suoni del funk, gli ideali delle «Black Panthers» agli echi del soul, Fela era insomma l' artista che scriveva in musica il sogno di Martin Luther King.
All'inizio, come racconta Carlos Moore nella sua biografia autorizzata «Fela. Questa bastarda di una vita», il grande nigeriano era semplice jazz gioioso poi, dopo il viaggio negli Stati Uniti degli anni '60, ritornato nella Nigeria del boom petrolifero, era il funky sovversivo, l'afrobeat che denuncia.
Era, insomma, la vulcanica ed esplosiva dissidenza.
 
Non a caso nel 1970 fonderà la famosa «Repubblica di Kalakuta» nella sua comune, nel cuore di Lagos che dichiarerà indipendente dalla giurisdizione del governo della Nigeria.
Sempre non a caso nel 1976 scriverà e canterà le parole precise e devastanti del suo celebre disco «Zombie» che si riferiranno al temuto esercito nigeriano colpevole di «no go think unless you tell am to think» [di non pensare finché non viene detto loro di farlo].
La risposta del governo, saturo degli attacchi del cantante, sarà inaspettata e violenta e vedrà i militari penetrare nella roccaforte di Fela, distruggerla, ucciderne gli abitanti e buttare la madre dell'artista fuori dalla finestra.
 
Il leggendario Fela si vendicherà a modo suo, uscito di prigione, trasporterà e depositerà la bara davanti alla caserma Dodan, residenza del capo dello stato e intonerà «Coffin' for Head of State», pezzo scritto appositamente contro il governo e contro il «panzone Olusegun Obasanjo» responsabile del disastro.
Celebre poi in tutto il mondo l'ennesima provocazione del geniale musicista quando nel 1978, primo anniversario della distruzione di Kalakuta, sposò ben 27 donne tra concubine, vocalist e coriste inneggiando in questo modo alla poligamia.
 
Proverà alla fine degli anni '70 anche a candidarsi alle primarie con il suo «Nigerian Movement of the people» ma gli sarà impedito l'accesso alla candidatura.
Questo smacco non porrà fine, però, alla sua battaglia.
Lotterà,sempre, contro un'infinità di cose prima fra tutte, forse, contro la sua Nigeria corrotta dai petrodollari. Contro il razzismo che non lascia spazio alla crescita, contro chi deruba l'Africa dei suoi beni, e contro l'Africa che, semi incosciente, si lascia derubare.
 
Oggi, forse, se l'Aids non lo avesse ucciso, si scaglierebbe anche contro l'Islam radicale che usa le pianure della Nigeria per costruire i suoi campi di addestramento jihadisti.
Griderebbe il suo disappunto per le multinazionali straniere che si ritagliano, indisturbate, possessioni nella ricchissima area del Delta del Niger.
Scriverebbe, sicuramente, parole roventi anche contro il governo di Abuja, il più corrotto del mondo, dove ogni anno spariscono 40 miliardi di dollari dall'erario statale.
Oggi avrebbe 74 anni l'uomo più africano del XX secolo.
Si faceva chiamare Anikulapo «colui che porta la morte in tasca».
Ma in tasca, forse, ci portava anche tutta la speranza dei suoi nigeriani.
 
Miryam Scandola

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