Perché non torni «l’An de la fam» – Di Maurizio Panizza

Come è nato il termine nell’uso popolare – La questione ambientale: perlomeno che non torni per colpa dell’uomo

Il cratere del vulcano Tambora fotografato oggi dall’alto. È «solo» il secondo vulcano al mondo per pericolosità, ma ha generato la più disastrosa eruzione a memoria d’uomo.
 
Come tutti gli anni, anche il 2019 si affaccia al mondo portando con sé preoccupazioni e auspici che rimbalzano, poi, dai media alle persone comuni.
Da una decina di anni è la crisi economica, assieme alla politica, il tema costantemente in cima ai pensieri più neri degli italiani.
Quest’anno, però, pare che una nuova consapevolezza abbia fatto sì che fra le preoccupazioni della gente siano entrati pure i cambiamenti climatici. Finalmente, verrebbe da dire, vista la situazione d’emergenza in cui versa purtroppo il pianeta, ormai da fin troppo tempo.
Se non si interviene subito - avvertono gli esperti - il disastro è assicurato.
E un esempio di ciò che potrebbe accadere in un futuro non molto lontano ce lo fornisce direttamente la Storia, anche se spesso tali precedenti passano via e si dimenticano in fretta.
 
Due secoli fa, proprio in questi anni, l’Europa e il Nord America ebbero la prima prova generale di cosa potrebbe accadere in presenza di fenomeni climatici anomali.
Allora, però, non si trattò di surriscaldamento, bensì di raffreddamento del clima, ma i risultati, se qualcosa dovesse succedere, sarebbero comunque gli stessi: fenomeni naturali disastrosi, carestia, incremento dei prezzi, miseria, malattie, conflitti sociali.
Terrorismo ingiustificato? Vedete voi. Allora si trattò di un’eruzione vulcanica, oggi potrebbe essere l’inquinamento dei mari e il riscaldamento globale.
La spaventosa eruzione del vulcano indonesiano Tambora si verificò il 10 e l’11 aprile 1815 (ma le conseguenze durarono ben oltre il 1819) e questo è un esempio del «castigo biblico» che potrebbe causare l’entrata di un elemento destabilizzante nella catena climatica globale.
 

L’anomalia delle temperature registrate nell'estate del 1815.
 
L’eruzione, causò la morte quasi immediata di oltre 60.000 persone e trasformò in poco tempo le estati in inverni su quasi tutto l’emisfero settentrionale causa l’enorme nube che offuscò il sole per mesi.
Il vulcano emise gas sulfurei che nell’atmosfera generarono un aereosol tanto denso e spesso da bloccare la luce del sole, così che su gran parte dell’Europa e del Nord America si ebbe un «anno senza estate», come viene ricordato.
Già all’inizio di giugno si capì che dal punto di vista climatico qualcosa non stava andando per il verso giusto, perché erano tornate le temperature fredde come se stesse iniziando nuovamente l’inverno. Il cielo era quasi sempre nuvoloso, il sole si vedeva di rado.
Di conseguenza i raccolti furono falcidiati dalla carenza di luce e dal freddo e la gente alla fine fu costretta addirittura a mangiare gatti e topi e tutto ciò che c’era di commestibile pur di sopravvivere alla carestia.
 
Sulla Pennsylvania e sui rilievi del New England in America, e pure in Canada, caddero ben 20 cm. di neve nel mese di giugno, seguiti da una prima sequenza di gelate. In piena estate si girava con cappotto e guanti e si arrivò a una pesante crisi alimentare.
Fu un anno di carestia e i prezzi lievitarono alle stelle.
Molti andarono in miseria e altri si tolsero la vita. I raccolti erano andati distrutti, il pane era introvabile.
In Europa la situazione non era meno drammatica. Le tempeste improvvise di quei mesi, le piogge anomale e le inondazioni dei maggiori fiumi europei (incluso il Reno e compreso pure l’Adige) sono oggi attribuibili all'eruzione, così come l’arrivo del ghiaccio nell'agosto del 1816.
Quell’anno gli alti livelli di cenere in atmosfera resero spettacolari i rossi tramonti celebrati nei dipinti di J.M.W. Turner.
L'eruzione del Tambora fu anche la causa nell’Europa dell’Est di nevicate sporche e qualcosa di simile accadde anche in Italia, dove per quell’inverno e per quello successivo cadde della neve rossa dovuta alle ceneri presenti nell'atmosfera.
 

 
L'Europa che stava ancora riprendendosi dalle guerre napoleoniche, soffrì per la mancanza di generi alimentari: in Gran Bretagna e in Francia vi furono rivolte per il cibo e i magazzini di grano vennero saccheggiati.
Secondo un'ipotesi formulata recentemente il cambiamento climatico fu responsabile, in qualche modo, anche della prima pandemia colerica del mondo.
Infatti, prima del 1816 il colera era circoscritto alla zona del pellegrinaggio sul Gange, mentre la carestia di quell'anno contribuì alla nascita di una epidemia nel Bengala che si diffuse poi in Afghanistan e nel Nepal.
Dopo aver raggiunto il Mar Caspio, l'epidemia si trasferì in occidente toccando il mar Baltico e il Medio Oriente. La diffusione della malattia fu lenta, ma costante e raggiunse in seguito tutto il mondo.
 
De «l’an de la fam» - come venne ricordato in Trentino-Tirolo - anche noi abbiamo delle testimonianze dirette.
Scrive, infatti, don Francesco Vinciguerra, cooperatore di Telve Valsugana nell’inverno del 1816: «L’anno 1816 sarà memorabile per le disgrazie, e giusti gastighi del cielo dati al popolo per i peccati. Fu quest’anno carestioso al sommo segno, imperocché la stagione d’inverno freddissima, e abbondante di nevi poiché solamente dopo i 2 di febbraio nevicò 16 volte qui in paese.
«La primavera e l’estate sempre piovosi, e così anche l’autunno hanno impedito il raccolto, abbondanza e maturazione d’ogni specie di frutto, sì di biade come d’uve, castagne e altre cose. Basta dire, che la canonica di Telve ha raccolto 7 emeri di decima in uva malmatura in guisa, che convenne pestarla in modo straordinario; il vino in conseguenza riuscì acido e disgustoso. 
«Le biade furono a sommo prezzo dimodoché il sorgo giammai nel mese di dicembre si vendeva dieci undeci e anche più fiorini il moggio, in maggio fiorini 16, i faggioli undeci fiorini il moggio mentre per altro si pagavano due o tre, e quando la divina provvidenza non si movesse a pietà (della quale siamo indegni) non si può sperare altro che vedere una gran parte di persone perire da fame. I migliori possidenti del paese, tra i quali si distinse in modo speciale l’ottimo signor dottor Giobatta del fu signor Giuseppe Paolino D’Anna abitante in Telve per procurare ai poveri del paese un bene (cioè perché non abbiano da perir da fame) hanno provveduto circa 600 moggi di sorgo in Italia, dove pure è grande la carestia per venderlo in primavera al semplice costo, e anche con loro danno, perché diedero il capitale senza interesse, oltrecché hanno aggiunto altre opere senza rimunerazione.»

L'autore di questo articolo indossa una t.shirt che riporta la scritta in spagnolo: «La terra sta ogni volta più calda con noi... Ci sarà qualcosa da fare, no?»

Lasciando perdere i peccati e il conseguente castigo di Dio di cui parla don Vinciguerra, se in quegli anni risultò evidente ai più che la carestia era diretta conseguenza di un clima impazzito, sarebbe tuttavia passato più di un secolo prima che gli esperti si rendessero conto delle vere ragioni che avevano portato a quel tragico evento.
È impossibile che oggi accada qualcosa del genere? Ne siamo sicuri? E badate bene, non è che stiamo parlando di eruzioni vulcaniche, seppur importanti, ma di atmosfera, di gas serra, di surriscaldamento globale.
Qui c’è di mezzo il pianeta intero, l’unica terra che abbiamo a disposizione. Pensiamoci tutti, seriamente, prima che sia troppo tardi e ricordiamoci de «l’an de la fam» come a qualcosa che non deve assolutamente ripetersi. Perlomeno non per colpa nostra.

Maurizio Panizza

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