Derive ipnotiche – Di Massimo Parolini
Trittici: poesie di Annamaria Ferramosca in dialogo con quattro artisti
>
L’Ecfrasi è una parola di origine greca (ἔκϕρασις: derivato di ἐκϕράζω «descrivere con eleganza») che indica la descrizione verbale di un'opera d' arte visiva.
Il greco Simonide di Ceo (poeta vissuta tra il sesto e il quinto secolo a.C., citato da Plutarco ne «Della gloria degli ateniesi») sostiene che la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante.
Vari secoli dopo Plutarco (riprendendo Simonide) ribadisce il carattere mimetico-imitativo delle due arti rispetto alla natura (tema che riprenderà nella «Vita di Alessandro» e che troviamo anche nella «Poetica» Aristotele) attribuendo alla pittura una rappresentazione delle azioni mentre avvengono, alla poesia il loro ricordo.
Al tempo dei romani con l'ekphrasis venivano realizzate sculture greche, magari andate perdute o distrutte, con una descrizione; si trattava quindi della riproduzione di una scultura con una descrizione.
Di solito con ecfrasi si intende una figura retorica nella quale un'arte tenta di dialogare con un'altra arte descrivendo la sua forma originaria, svelando particolari spesso invisibili ai non esperti di quel tipo di arte (critici, intellettuali, etc.).
Il poeta latino Orazio formalizzerà questa concezione ne «L’arte poetica» con la famosa formula Ut pictura poesis («Come nella pittura così nella poesia») intendendo che esiste un tipo di poesia che piace maggiormente se vista da vicino, e un'altra che piace solamente se guardata da lontano, o riosservata una seconda volta, o analizzata con un occhio critico, come avviene per la pittura.
Dalla descrizione dello scudo di Achille di Omero (Iliade, libro XVIII, versi 478-607) a quella dello scudo di Eracle di Esiodo, e dello scudo di Enea descritto da Virgilio (Eneide, 626-731, libro VII) passando per l’ecfrasi della tela di Arianna descritta da Catullo nel Carme 64, la concezione mimetica delle arti sorelle viene ripresa nell’Umanesimo-Rinascimento, con il delinearsi di due schieramenti polemici: i sostenitori (in linea con Simonide) di una certa superiorità della poesia sulla pittura (la prima si rifà all’intelletto, la seconda solo all’occhio) contro quelli (in primis Leonardo) che ribadiscono la superiorità emotiva (capacità di impressionare-commuovere) della pittura.
Nel ’600 Giambattista Marino (autore della «Galeria», ricchissima di esempi di ecfrasi) cercherà una mediazione sostenendo che tali arti sorelle a volte si scambiano i ruoli e «la poesia dicesi dipignere e la pittura descrivere».
Nel Settecento il filosofo Lessing riseparerà l’essenza delle due forme creative attribuendo alla poesia una funzione imitativa nella scansione temporale, all’arte nella sincronicità spaziale (ritornando quindi a Plutarco).
Nell’Ottocento, con Baudelaire e Balzac, verrà superata la visione imitativa delle due arti, facendo dell’immagine estetica una realtà autonoma capace di rinnovare il reale e fondare, emotivamente, la scrittura letteraria.
In una società industriale in cui «ogni cosa intorno è impregnata di bruttezza e annega nella menzogna» (H. Van de Velde, «Per il nuovo stile») l’arte non deve più imitare la vita assente dal mondo corrotto della finzione, del calcolo, dell’utilità, ma esprimere la vita che contiene già in sé e dentro l’anima dell’artista.
Nel Novecento l’Ecfrasi si amplifica: Rilke, Yves Bonnefoy, Ungaretti, Saba, Pasolini, Gatto, Testori, Fernando Bandini, o Luzi, che addirittura dedica ad un autore (Simone Martini), alla sua vita e alle sue opere un intero poemetto, sono solo alcuni degli autori che si cimentano con l’ecfrasi. In certi casi si tratta di critici d’arte-poeti (come per Guido Ballo o Cesare Vivaldi), in altri di pittori-poeti (come per Toti Scialoja ed Emilio Villa).
Tra i poeti che in tempi recenti hanno dedicato un dialogo in versi ad opere d’arte segnaliamo Annamaria Ferramosca, poetessa salentina (nativa di Tricase, nel leccese, ma residente da molti anni a Roma, vedi) che nella sua decima (e penultima) pubblicazione poetica, intitolata «Trittici [il segno e la parola]» (Dot.com Press, pref. di Maria Teresa Ciammaruconi, 2016, pp. 52, € 10) dedica dodici «transfert» poetici a quattro pittori: due in attività (Cristina Bove, vedi, e Antonio Laglia, vedi) e due pittori storici di fama internazionale: Amedeo Modigliani e Frida Kahlo.
Tutti i quadri prescelti dall’autrice per una comunione emotiva e spirituale si concentrano sulla forma di donna, in qualità di ritratto o figura: da quelle del pittore livornese Modì che imitano maschere Guro della Costa d’Avorio, agli autoritratti di forte cromatismo simbolico e mitopoietico di Frida Kahlo frutto di sensazioni, stati mentali e reazioni profonde prodotte nella vita della pittrice messicana, dalle ragazze surreali e fantasmatiche di Cristina Bove ai ritratti realisti-manieristi di Antonio Laglia.
Nei versi di Ferramosca si riaccende la fiamma vitale delle figure in vetrina, esposte allo sguardo dei passanti: l’eidos bloccato nel croma sulla tela rivendica una storia, una carne, delle emozioni. Chiede di uscire dalla fissità simultanea e farsi scansione temporale fonetica e semantica.
Nella sua nota introduttiva l’autrice condivide la sua fede in una scrittura poetica «come ricerca che non si pone limiti, mai sazia, volta ad inseguire qualcosa che sempre sfugge»: in ciò rievoca una massima del filosofo austriaco Wittgenstein secondo il quale i limiti del linguaggio rappresentano i limiti del proprio mondo.
Ciò che risulta decisivo per Ferramosca, nella visione dell’opera d’arte, è «l’urto emozionale e il volerne poi lasciare traccia scritta, la spinta a riprodurre quel ponte-prodigio creatosi tra immagine ed immaginario.»
Un tentativo di volo - non didascalico - «lungo una scia parallela». Volo che ha scelto quattro autori, dicevamo: il «perturbante dei visi senza sguardo» modiglianesco, la repetitio priva di vanitas del proprio autoritratto della messicana Khalo, l’evanescenza estatica e surreale delle opere di Cristina Bove, l’ossessione formale nella rappresentazione di «perfette psicologie femminili» e l’accesa mestizia metafisica di Antonio Laglia.
Come sostiene Pedro Azara in «l’Occhio e l’ombra. Sguardi sul ritratto in Occidente», non c’è nulla che attragga più del ritratto: esso oscilla tra una funzione di rappresentazione (del modello) e il ruolo di idolo magico che incarna, sostituendo lo stesso modello.
Che cosa sarebbe un ritratto se il visibile non rinviasse all’invisibile, se la forma presente non evocasse una realtà assente?
Come in teatro il personaggio non viene semplicemente imitato ma reincarnato dall’attore che lo rappresenta sulla scena, così nell’ecfrasi di Ferramosca le figure femminili del pittore livornese sono tre personaggi in cerca di un colloquio col proprio autore: in «Elvira che riposa a un tavolo» la modella afferma: «in magnetico ascolto del mio colore/stai traducendo questa rassegnazione/ti parlo in silenzio azzurro senza pupille/ mi piega una stanchezza del mondo/senza fine né origine/[... ]/così mi pensi al mondo slungata in/dolcesagerata distanza del/capo dal busto/nella tua stanza che dilata d’assenza».
Un’Elvira che Dedo sembra minacciare «dal biancore d’infanzia» con l’uso dell’assenzio, ma che protegge il proprio grembo - assillo del pittore - con «mano sentinella».
Anche le altre due figure ritratte da Modì scelte dalla poetessa hanno le mani al grembo: Jeanne Hébuterne, la modella amante (che si suicidò il giorno dopo la morte per tisi del pittore gettandosi da una finestra col bimbo di nove mesi in grembo) sogna di sposare il suo autore e inspira la sua vernice lunare «da narici africane» mentre tenta di de-finirla «chioma rossa cedevole» protetta dal pittore con «fasce verticali» sull’addome «dove trema l’embrione mi cresce in lutto/lo guardo con vuote congiuntive blu/ché nemmeno ho pupille per nutrirlo»; la «Bambina in abito azzurro», con le sue pupille ipnotiche, uno dei pochi Modigliani che ritraggono uno sguardo, essendo una bimba che non ha ancora motivo di mascherarsi, perché la maschera ricopre il viso adulto, viene colta da Ferramosca nell’atto di essere svegliata da «maman» per andare nello studio del pittore a farsi ritrarre «col nastrino rosso»; sistemata in posa «bambola-nell’angolo» si stringe «le mani una sull’altra» impaurita nel «trasmigrare sulla tela» come se il pittore le stesse rubando l’anima, l’innocenza («ho solo questo mio blu spaurito/e tutta l’incertezza del mondo»); mentre le gote s’incendiano la bimba azzurra chiede di non essere maschera: «tu dipingi ti prego le pupille/fammi occhi chiari ben fissi nei tuoi».
Nei ritratti di Frida Kahlo (ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane) occhi carbone impenetrabili specchi di lontananze velate e sofferenze svelate, labbra serrate per nascondere –come direbbe D’Annunzio delle colline fiesolane- un segreto, si fanno segno di un profilo che diviene intenso sguardo irriducibile, icona ieratica con monociglio, sposa e dea madre.
In «Autoritratto con scimmie» (nella mitologia messicana protettrici delle danze e al contempo simbolo di concupiscenza) Ferramosca coglie l’«umore di foresta nel/fogliame largo che mi sfolgora/la bella carne e il pensiero dell’effimero».
Simbolo di lascivia, dicevamo, le scimmiette (che scorrazzavano libere nel giardino della Casa Azul di Frida) ma emblema anche, nel suo abbraccio, di amore soffocante.
Frida indossa uno «huipil» bianco, una blusa a cui manca una nappa, simbolo, dal detto spagnolo «tomar la borda», dell’acquisizione del titolo di laurea.
La pittrice si rappresenta come un’accademica poiché aveva ottenuto il ruolo di insegnante presso la scuola di pittura e scultura del Ministero della Pubblica Istruzione; le quattro scimmiette che la osservano con ammirazione potrebbero riferirsi al gruppo fisso dei suoi quattro allievi, chiamati «Los Fridos»; sullo sfondo del fogliame e il Fiore della Regina.
Le scimmiette (presenti in molti altri autoritratti) appartengono al genere Ateles; definite anche scimmie ragno, sono diffuse nell’America del centro-sud, e possiedono una coda prensile molto robusta usata in qualità di quinto arto. Sono fra i pochi primati con gruppi dove prevalgono esemplari femminili dominanti.
Ferramosca de-scrive anche una «negra corona sul capo intrecciata» emblema di un «infinito schiavo amore».
Amore per Diego Rivera, muralista messicano sposato nel 1929, da cui divorziò, risposato nel 1940. Amore contrastato e ossessivo che ritroviamo nell’«Autoritratto come Tehuana (o Diego dei miei pensieri)».
Frida Kahlo ricorreva spesso a soggetti tratti dalle civiltà native, al fine di affermare la propria identità messicana. In questo dipinto del 1943 (nel ’48 ne riprenderà il costume con un’espressione più sofferente e tre lacrime in viso) si ispira al costume delle donne di Tehuantepec, un comune di Oaxaca (luogo nativo della madre, nel Messico meridionale), che ha una reputazione di società matriarcale dove si dice che le donne comandano ai mercati locali e sono famose per deridere gli uomini.
«Intera la mia figura di carne cancellata/coperto il corpo/capovolto in anima bianca disossata» scrive la poetessa: un’allusione che può rinviare il lettore anche alla vicenda biografica di Frida, affetta da spina sbifida, che a 18 anni fu vittima di un incidente d’autobus (scontratosi con un tram) che le spezzò la colonna vertebrale in tre punti nella regione lombare, frantumò il collo del femore e le fratturò la gamba sinistra; schiacciò il piede destro schiacciato, spezzò l'osso pelvico.
Subirà durante il resto della sua vita ben trentadue operazioni chirurgiche.
Costretta per anni a letto, col busto ingessato, leggerà (soprattutto libri sul movimento comunista) ed inizierà a dipingere autoritratti («Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio» dirà) con un letto a baldacchino con lo specchio sul soffitto, indirizzando da allora la sua vocazione artistica.
Nel ritratto le radici delle foglie che ornano i suoi capelli rimandano ad una tela di ragno con cui cerca di catturare la sua preda: «su fili di ragnatela antichi di salvezza/mi faccio stella/di quelle che in amore sfrecciano/come fiorendo esplodono/all’alba le ragazze tehuane scoprono/fiorimpronte sui capelli/e in fronte inciso un viso/incarnato destino»: Diego Rivera è un tatuaggio d’amore destino, come un santo o un Dio su una lunetta affrescata.
Ferramosca, anche nella raccolta successiva a «Trittici», intitolata «Andar per salti», riprende spesso nella sua produzione, tornando alle origini salentine-messapiche, l’idea di ragnatela-groviglio (’nturcinate) alla quale sfuggire con il taràn-taranta, danza frenetica dal valore esorcistico legata al mito del labirinto, come ricerca del sé originario, nel riabbraccio del caos primordiale.
Danza capace di curare, inducendo alla trance, il morso del ragno. Nel successivo quadro scelto da Ferramosca per il suo urto emotivo («L’abbraccio amorevole dell’Universo, Diego, io e il signor Xolótl») Frida si fa maternità in un contesto ricco di riferimenti al Messico ed alla mitologia azteca.
La pittrice svolge anche il ruolo di madre per l’amato, il quale è dotato di terzo occhio, emblema di conoscenza spirituale, che in questo caso permette l’unione e la continuità del rapporto fra i due amanti, dietro ai quali è dipinta la statua della dea Madre della terra azteca, Cihuacoatl.
Alle sue spalle troviamo la Madre Universale, in un ulteriore abbraccio che contiene tutte le figure e diventa cuccia, nella mano sinistra, di Itzcuintli Señor Xolotl, il cane di Frida, indicato col nome di Xolotl, il guardiano dei morti, che ha preso la forma del cane per osservare il mondo terrestre e trasporta di notte sul dorso i morti nell’al di là: «vieni Xolotl accucciati ai miei piedi/dormi sulla divina mano/ domani domani/mi aiuterai a trascinare/questo mio grasso nato infido/e saggio gl’invidio/quel suo terzo occhio/ in mano ha la fiamma/che ancora mi divora/ [...] /infine la quiete l’abbraccio/la tanto amata cosmica dea/che tutto tutti ama».
Nelle poesie dedicate da Ferramosca alle opere (computer art) di Cristina Bove i versi indagano scene surreali: lo spazio di un volo «nell’ora di nebbia e nullo amore» di una figura femminile «in mascherina disadorna/un vestituccio chiaro a lapilli vulcanico/per far ritorno nel cratere calmare il magma/laddove si fa vistoso vortice/e madre e padre si sbracciano d’amore».
Una donna volante che «vorrebbe planare sul mondo/[...]/sospesa nell’ascolto battente/[...]/una ferma anima-luce» che non vuole arrendersi «alla spietata distanza degli abbracci».
Donna che nella successiva poesia (in dialogo con l’opera, che lontanamente riecheggia «L’Europa dopo la pioggia» di Max Ernst) si fa novella sopravvissuta ad un’ecatombe apocalittica che «cammina verso un futuro antico» poiché ha «ancora semi da salvare/bestiame da ricoverare» e continua, scrive la poetessa, «a lasciar traccia dei rifugi/ [...] / testimone testarda di albe nuove possibili».
A rifondare, magari, un mondo matriarcale, innocente, come quello della successiva ecfrasi «Il cancello (rituale di svelamento)» dove «la sfera materna» concede apertura «alle verità taciute le perdona», in una leggerezza ancora di volo che conduce alla «previta/all’esultanza dell’embrione» fra «allegre lallazioni guaiti», in una danza dionisiaca di esultanza per una rinascita.
Le ultime tre poesie di «Trittici» sono dedicate ai lavori di Antonio Laglia: figure femminili anonime colte nell’atto di gesti usuali, come provare un cappello in un camerino teatrale, svegliarsi al mattino, bere una tazza di caffè; è dal Cinquecento (ad esempio con Giovan Battista Moroni) che si sviluppa una ritrattistica di persone anonime e di vari ceti dipinte nell’esercizio della loro attività (tema ampiamente sviluppato, soprattutto nella pittura fiamminga nel Seicento) andando contro la concezione di «modello da imitare» che il ritratto portava tradizionalmente in sé (e che sarà reimposto dalla Controriforma nei paesi cattolici).
Un realismo manierista di pregevole pittura, quello di Laglia, capace di fissare il reale in forme solide e accurate, nelle cui opere i volti spesso si sottraggono allo sguardo o si concedono solo attraverso uno specchio (ma «bastano minimi moti/a fare in pezzi lo specchio beffardo»).
Donne meste, dense di solitudine e stanchezza esistenziale («seduta disarticolata/in pianto trattenuto/sullo sghembo finale di scena su ogni devastazione»), desiderose di leggerezza e abbracci («grido sono ancora/quella bambina orfana d’amore/sempre in volo») aperte all’attesa di un evento, di un filo da disbrogliare, di un responso sibillino di rinascita che non svanisca «nel rifare il letto», ma porti una notizia - pur ambigua - che ridìa bellezza al vivere, portando «il nuovo giorno ancora il nuovo/sole che abbaglia».
Annamaria Ferramosca
Nasce in Salento, a Tricase, alla confluenza dei mari Adriatico e Ionio, di fronte all’Albania.
Frequenta il Liceo classico a Lecce. In questi anni inizia la sua passione per la letteratura antica, soprattutto per la poesia degli autori greci e latini, ma ben presto scopre anche i contemporanei.
Uno studio che proseguirà poi senza pause, contemporaneamente mettendosi alla prova con la scrittura poetica.
Da sempre affascinata dal mondo naturale, decide di proseguire gli studi universitari nel campo della Biologia. Si trasferisce a Siena dove si laurea brillantemente in Scienze Biologiche.
Si trasferisce a nel 1970 a Roma, dove si sposa e ha un figlio, cui mette nome Manuel in omaggio alla poesia spagnola contemporanea che in quel periodo monopolizza la sua lettura.
Per molti anni insegna Scienze Naturali nei Licei romani. Intanto studia Fitoterapia e si specializza in Scienza dell’Alimentazione, abbandonando poi l’insegnamento e dedicandosi al lavoro di Nutrizionista e contemporaneamente alla scrittura, mai abbandonata, di poesia.
Decide di pubblicare solo dopo uno sterminato chilometraggio di letture poetiche e su sollecitazione del poeta Plinio Perilli, che introduce e presenta la sua prima raccolta dal titolo «Il Versante Vero», nel 1999. Dopo l’esito lusinghiero di questo suo libro d’esordio. che ottiene il Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi, pubblica negli anni le successive raccolte.
«Con il volume Curve di Livello», edito da Marsilio nel 2006, che riceve numerosissimi riconoscimenti dalla critica, l’autrice diviene nota nel panorama italiano poetico contemporaneo.
Le recensioni critiche evidenziano nel loro complesso la capacità della poetessa di evocare, con un linguaggio originale che fonde impronte di classicità e richiami dalla scienza, la visione possibile di un’umanità capace di abbandonare l’errore per volgersi verso l’incontro solidale planetario.
Consistente si fa negli ultimi anni anche la sua attività di scrittura critica su poeti contemporanei e la collaborazione con riviste di poesia, anche in rete, come La Clessidra, Poesia, Gradiva, La Mosca di Milano, Le voci della Luna, Poiein, Blanc de ta nuque, Rebstein, Carte Allineate, Neobar, e sul territorio con l’Associazione culturale romana Villaggio Cultura-Pentatonic.
Fa parte della redazione del portale «Poesia2punto0.com», dove è ideatrice e curatrice della rubrica Poesia Condivisa. Sostiene e partecipa ad iniziative di scrittura poetica collettiva, come esercizio non autoreferenziale e scambio moltiplicatore di creatività.
L’incontro con il poeta editore Alfredo de Palchi è decisivo per dilatare la sua poesia in terra americana e in ambiente anglofono con la pubblicazione del volume antologico bilingue Other Signs, Other Circles nel 2009.
Ha presieduto il Premio di poesia De Palchi-Raiziss e fatto parte delle giurie dei Premi Davide Maria Turoldo, don Milani, Il giardino di Babuk. Ha collaborato con note di lettura con le riviste Poesia , La Clessidra, Le Voci della Luna, Gradiva, La Mosca di Milano.
Ha curato la versione poetica in lingua italiana dei testi del poeta romeno Gheorghe Vidican nel volume antologico 3D - Poesie 2005-2013,CFR,2015.
Numerosi sono i testi in traduzione inglese che appaiono sulle riviste: Gradiva, Freeverse, World Literature Today, Inverse, Salzburg Poetry Review, Italian Poetry Revue, Fire. Sue poesie sono tradotte anche in francese, tedesco, albanese, greco e romeno. Testi in voce sono stati registrati e inclusi nell'Archivio della Voce dei Poeti, Multimedia, Firenze.
Massimo Parolini