I bamboccioni… si diventa – Di Giuseppe Maiolo, psicanalista

Si resta «puer» o «bambocci» quando prevale qualcuno che dà soddisfazione ai bisogni ancor prima di averli e di manifestarli

Il ministro Tommaso Padoa Schioppa diede origine il termine «bamboccioni».
 
C’è un termine che, pronunciato qualche tempo fa da un politico, ha suscitato subito scalpore e irritazione al punto tale che è immediatamente divenuto impopolare: è la parola bamboccione.
Per la verità non è un bel vocabolo, tantomeno rappresentativo (come vorrebbe essere) di una generazione. È solamente espressivo ed evocativo.
Fa venire in mente uno di quei bambolotti che usano i piccoli per giocare e divertirsi. Pacioccone, morbido e tenerone, quel giocattolo che un tempo era anche chiamato cicciobello è servito come metaforica per alludere ai nostri giovani, a quegli adolescenti del nostro tempo che sembra non crescano mai.
 
Ragazzi o giovani adulti che a lungo coccolati dalle nostre mille attenzioni, iperprotetti e difesi ad oltranza da genitori ansiosi e preoccupati, appaiono intenzionati a non andarsene mai di casa.
Possiamo incolpare la crisi economica, i costi della vita sempre più elevati o la crescente disoccupazione che impedisce di trovare un lavoro e diventare autonomi e indipendenti.
Ma di sicuro c’è anche qualcosa d’altro se leggiamo dalle statistiche ufficiali che una buona parte dei giovani disoccupati è fatta di ragazzi che non cercano un lavoro.
 
Forse è doveroso chiedersi se non vi sia anche un eccessivo accudimento familiare a far sì che oggi l’adolescenza si rappresenti come un’epoca lunga e interminabile capace di trattenere i giovani, e per un tempo infinito, al calduccio nelle camerette ancora stracolme di animaletti di peluche che convivono con sofisticati strumenti digitali.
Vale la pena di domandarsi cosa sta accadendo se queste nuove generazioni di ragazzi, all’apparenza spavaldi e sicuri, per paura di crescere però scelgono di non uscire di casa e isolarsi dal mondo convinti che la realtà virtuale sia molto più rassicurante della vita e delle relazioni esterne.
Di certo si tratta di un fenomeno nuovo, per certi versi allarmante che in Giappone ha raggiunto livelli incredibili. L’isolamento sociale anche da noi è una realtà.
 
L’angoscia delle relazioni e la sfiducia nel futuro stanno mortificando i sogni e annullando la progettualità tipica dell’adolescenza, come tempo del desiderio e dei cambiamenti.
Ora l’esistenza dei ragazzi è piuttosto statica: vivono alla giornata senza preoccuparsi di cosa accadrà in futuro, tanto alla fine c’è sempre qualcuno che soccorre e provvede.
Per fastidiosa che sia l’immagine del bamboccione è tuttavia la rappresentazione di un adulto che rimane piccino, di un Eterno fanciullo che non cresce.
 
In passato si rappresentava come Peter Pan che non sapeva allontanarsi dalla madre. Nella nostra cultura mediterranea sovente era il figlio prediletto, quello più coccolato e viziato, a volte ma non sempre l’ultimo della nidiata.
Lo chiamavano il «cocco di mamma» e a lui venivano risparmiate le fatiche, i doveri e le scelte.
Protetto e difeso da ogni possibile pericolo quel piccino diventava un adulto fragile e insicuro che si defilava di fronte alle responsabilità e rimaneva nascosto dietro l’ala protettiva della madre.
Con lei in particolare manteneva nel tempo un rapporto di totale dipendenza e lasciava che fosse questa a decidere per lui e a dirgli cosa doveva o non doveva fare. Poteva formarsi una famiglia, ma portava sua moglie a vivere in casa.
Se sceglieva per sé la donna da fare sua sposa, prima di tutto doveva andar bene alla mamma.
Oppure si prendeva una moglie-madre con cui poter fare il figlio coccolato e guidato. Insomma cresceva fisicamente ma restava piccolo dentro.
 
Allora come oggi però, si resta «puer» o «bambocci» quando prevale qualcuno che dà soddisfazione ai bisogni ancor prima di averli e di manifestarli.
 
Giuseppe Maiolo
www.officina-benessere.it