Algoritmo di fede – Di Massimo Parolini

Orme intangibili: sulla poesia salmodiante di Alessandro Ramberti

Titolo: Orme intangibili
Autore: Alessandro Ramberti
 
Prefazione: Vincenzo D'Alessio
Postfazioni: A. Zanatta, A. Montebelli e G. Criveller
 
Editore: FaraEditore, 2015
Prezzo di copertina: € 10 (pagine 80)
 
Orme, impronte, intangibili, intoccabili, inviolabili. Che indicano un passato, un presente, una direzione di futuro. Il cuore è oppresso e dilatato nella forma di un cammino che cerca una direzione.
«Ho sognato di avere/il cervello percorso/da una lancia gettata/da qualcuno indistinto/e remoto (Antefatto)».
Un verso denso, quello di Alessandro Ramberti, un’orazione poetante, un’invocazione, un invito dal pulpito della propria bio-grafia, di una vita incarnata che si fa segno, fonema, scrittura. Appunti di fede raggiunta. Strofe di quartine incorniciate da rime e collegate da incisi in settenari, che fungono da spazio di cesura riflessiva.
«Orme intangibili» parla dell’uomo, della vita di ognuno, posto inequivocabilmente di fronte alla domanda esistenziale, che solo il dolore obbliga a porsi: la crepa nell’edificio vitale diviene dunque il punctum -come direbbe Roland Barthes- che attira il nostro sguardo, al di là della struttura generale: è lì dove avviene una cesura che interrompe la superficie effimera e scorrevole della parete («Le crepe fanno bene agli edifici», Prologo).
 
Ma, come ci ricorda Hölderlin, là dove aumenta il pericolo, aumenta anche ciò che salva: dalla crepe può fuoriuscire il fuoco del battesimo, che dà consolazione e direzione («il veleno del male nei ventricoli/rallenta la sua corsa quando ami»).
La lancia nel cervello diviene metafora di salvezza, se crea, estratta, un esangue passage illuminato verso l’altrove.
Conscio di essere un arciere dilettante verso un barlume di bersaglio incavo, l’autore coglie nell’io che vuol farsi Dio la colpa originaria e beneficia quindi agostinianamente della cura: essere docile creatura che accoglie l’essenza di un disegno unitario di salvezza, che ci stana e frattalizza e fraternizza con bocconi di gioia che creano comunità.
 
Resiste in noi un lato oscuro, un atro vuoto che vediamo dall’«orlo di un bacino» (Apertura) ma il nostro essere dei «quanti vivi e misurabili» non ci isola dal mondo e dagli uomini: la leibniziana monade, grazie alla luce divina proveniente dalla finestra, vibra e si fa autocosciente sanando i mali con l’atto creativo - riflesso demiurgico - che ci rende attivi, non ignavi, ma doverosi di scelta perché responsabili, mossi dall’eco vibrante dello spirito che pronuncia il nostro nome e lo crea di senso.
L’amore non può essere puro possesso o sfogo per mascherare il volto della morte -controfigura sempre pronta a sostituire gli attori nelle scene.
Attraversati da messaggi schizofrenici , in un mondo che tenta di ridurci a materia, biologia ed energia senza fini, rimane una richiesta di felicità nei fondali dell’anima, ma la storia - anche negli orrori del secolo breve - sembra testimoniare l’apparente insensatezza di un progetto intelligente.
 
Se la vita è una partita a scacchi con la morte - si intravedono le figure del Settimo sigillo bergmaniano - dev’esserci per l’uomo in palio la sua eternità - vita che perdura- altrimenti siamo le shakespeariane ombre in movimento, poveri attori che si agitano e pavoneggiano per un’ ora sul palco, pieni di strepiti e furore, di cui poi non se ne sa più niente.
 
La resurrezione del corpo - unito all’anima e allo spirito, - in una parola, la resurrezione dell’intera «persona» è il centro della fede cristiana, altrimenti «saremmo degli ammassi cellulari/ […]/ ossa in cammino verso un finale/[…]/» «Estinti dalla storia ricordati/da chi li seguirà nell’estinzione».
La foscoliana «corrispondenza d’amorosi sensi» è coscienza dell’effimero e condiviso destino, che non nutre la fame di quella gioia che esce dai fondali dell’anima.
 
«Perché questo contendere e lottare/questa inquietudine continua questa/volontà di procedere ed agire/senza potere nulla conservare»?
La quartina riecheggia il Frammento lirico L di Clemente Rebora:
«Quanto fosco imprecar, quanto tormento! / Perché l'insidia / se vivere è fiducia, / perché la colpa / se vivere è bellezza, / perché l'angoscia / se vivere è conquista, / perché la morte / se vivere è promessa?».
Ma Ramberti ha già sciolto il grumo del dubbio, è già alla seconda fase reboriana, quella di Don Clemente innamorato del crocifisso, al quale fu diagnosticata la «mania dell’eterno».
Al lettore fa una promessa esplicita, catechetica: «se mi accompagni in questa digressione/non ti prometto altro che uno sguardo/una domanda-verso un compimento/un desiderio di continuazione».
 
La misericordia - che segue dalla serenità della fede che si fa verso di speranza - vince il Leviatano del dubbio.
Oltre l’io «auto centrato». In attesa di una «voce numinosa», di un «tuono che ci scuota provocante».
E allora bisogna decidersi «mettendo in fila i passi».
Verso l’intuizione di un disegno intelligente: «Forse l’evoluzione spiega tutto/ o siamo il nesso di una elevazione? (Epilogo). La chiave sta nella duplicità della nascita: “uscire dal sepolcro/ per nascere di nuovo ma dall’alto».