74 anni fa la battaglia navale di Gaudo e Matapan – Il 28 marzo
La Regia Marina perse cinque navi, morirono 2.331 marinai italiani. Gli Inglesi persero un aerosilurante, morirono 3 aviatori – Prima parte
La formazione navale di incrociatori italiani della classe Zara.
La Marina Militare Italiana ha ricordato in questi giorni, con una messa di suffragio celebrata a Venezia, la perdita dei nostri marinai che 74 anni fa morirono nella più sanguinosa battaglia navale combattuta nel Mediterraneo dalle flotte in guerra. |
La battaglia di Capo Matapan venne combattuta tra il 28 ed il 29 marzo 1941 nelle acque a sud del Peloponneso, fra l'isolotto di Gaudo e Capo Matapan (Creta), tra una squadra navale della Regia Marina italiana sotto il comando dell'ammiraglio di squadra Angelo Iachino, e la Mediterranean Fleet britannica dell'ammiraglio Andrew Cunningham.
La battaglia in sé si compone di due scontri distinti: uno combattuto nei pressi dell'isolotto di Gaudo, tra mattina e pomeriggio del 28 marzo, e un secondo al largo di Capo Matapan nella notte tra il 28 ed il 29 marzo.
La battaglia, conclusasi con una netta vittoria britannica, evidenziò l'inadeguatezza della Regia Marina ai combattimenti notturni e consegnò temporaneamente alla Royal Navy il dominio del Mediterraneo, infliggendo gravi perdite, morali e materiali, alla Regia Marina, e condizionandone le future capacità offensive.
Un'impari lotta
In realtà, però, alla base di tutto c’erano ben altre questioni.
La prima era il radar. Gli Inglesi ce l’avevano, noi no. L’avevamo inventato, sia ben chiaro, ma i vertici militari avevano deciso che non serviva a niente. Per non tradire l’esistenza del radar, Cunningham aveva disposto addirittura che un aereo da ricognizione fosse sempre in volo facendo in modo che i nostri osservatori rilevassero la sua presenza.
La seconda era la falla informatica dei tedeschi. La Germania credeva di aver inventato, con «Enigma», un sistema criptico impenetrabile. Invece gli Inglesi avevano costruito «Ultra» che decrittava tutti i messaggi dei tedeschi. Il comando italiano comunicava sempre a quello tedesco di stanza a Roma le proprie mosse e quando questo le inviava a Berlino «criptate», era come se ne desse notizia direttamente al nemico.
Solo quando il comando italiano attivava iniziative secretissime, cioè tali da non essere comunicate neanche al proprio alleato, le nostre operazioni erano coronate da successo. Le operazioni della X Mas, ad esempio, riuscirono perché nessuno sapeva niente. E, ironia della sorte, l’attacco alla Baia di Suda (anch’essa a Creta dome Gaudo e Matapan) ebbe successo proprio qualche giorno prima della nostra disfatta.
Queste due situazioni di svantaggio assoluto crearono problemi enormi sia dal punto di vista operativo che isituzionale. Non perdemmo solo a Matapan, ma – tanto per fare un esempio – quando le nostre navi da carico portavano rifornimenti in Libia, trovavano sempre sommergibili ad attenderle in agguato.
Ma quel che era peggio è che i tedeschi – di fronte a tante coincidenze negative – si erano convinti che tra i nostri vertici militari ci fossero dei traditori in combutta con il nemico. Nulla di più falso, dato che la colpa era proprio loro. Ma questo lo si è appurato solo molti anni dopo la fine della guerra. Persino i libri più importanti sulla guerra marittima dell’Italia (come «Navi e poltrone») trovarono pietose spiegazioni nell’inettitudine dei nostri comandi.
In poche parole, era come se in una partita a poker uno dei due giocatori conoscesse sempre le carte dell’avversario.
Insomma, Cunningham aveva tutto dalla sua. E ha vinto.
Per tornare a noi, Mussolini si era lamentato degli insuccessi clamorosi delle prime fasi della guerra navale. Dopo aver rimosso ammiragli, sollecitò un’operazione navale che ridesse slancio e immagine alla Regia Marina italiana. Eravamo la più importante flotta nel Mediterraneo e dovevamo avere il controllo del Mare Nostrum.
Il piano di Supermarina consisteva nella predisposizione di due rapide incursioni offensive, una a nord ed una a sud di Creta, in caccia del traffico Alleato. Le navi italiane avrebbero dovuto, se in condizioni di superiorità, attaccare i convogli incontrati e la relativa scorta, ritornando poi rapidamente nelle basi nazionali.
Per attuare il suddetto piano Supermarina mise in campo quasi tutte le forze disponibili: la nave da battaglia Vittorio Veneto, due divisioni di incrociatori pesanti e una di incrociatori leggeri, oltre ai cacciatorpediniere di scorta.
L'intera operazione era affidata al fattore sorpresa. Laddove gli italiani fossero stati avvistati prima di arrivare nelle acque di Creta, i britannici avrebbero infatti avuto tutto il tempo di far allontanare eventuali convogli e di intercettare il nemico con la Mediterranean Fleet di stanza ad Alessandria d'Egitto.
Quindi gli ordini operativi vennero dattiloscritti dall'ammiraglio Arturo Riccardi, capo di stato maggiore della Marina. Il quale commise in buona fede l’errore di inviare un messaggio nel quale precisava che «Mancavano tre giorni al giorno X». Intercettata dagli inglesi, e interpretata bene come accadde come a Midway, Cunnimgham decise di sgomberare il mare dai convogli mercantili e predispose la flotta in modo da essere pronta per il «Giorno X».
Supermarina pose quale condizione indispensabile per il successo dell'operazione la certezza del fattore sorpresa e la continua scorta aerea della propria squadra per tutta la durata della missione. Era stato previsto pertanto l'intervento delle forze aeree nazionali di base in Italia e in Egeo (isola di Rodi) e di quelle tedesche del X CAT (Corpo Aereo Tedesco) di base in Sicilia.
Per favorire il coordinamento aereo e per decifrare i messaggi avversari indipendentemente dall'intervento di Supermarina, l'ammiraglio Iachino fece imbarcare sulla sua ammiraglia degli ufficiali di collegamento della Luftwaffe e un gruppo di decrittazione.
Particolare non da poco, la marina italiana non era attrezzata per gli scontri notturni, mentre la flotta britannica aveva fin dal 1934 affrontato questa eventualità, preparando metodologie di vampa ed equipaggi in questo senso.
Le due navi colpite nella Baia di Suda dei barchini esplosivi della X Mas.
Le prime mosse
Alle 21.30 del 26 marzo 1941, la corazzata italiana Vittorio Veneto lasciò il porto di Napoli con a bordo l'ammiraglio Iachino, scortata dai quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia (Granatiere, Fuciliere, Bersagliere e Alpino). L'ammiraglio stesso aveva deciso di salpare con il favore dell'oscurità per evitare che eventuali agenti nemici segnalassero l'assenza della nave dal porto.
Attraversato lo stretto di Messina, la nave si ricongiunse al resto della squadra italiana al largo della costa orientale della Sicilia: la I Divisione Incrociatori dell'ammiraglio Carlo Cattaneo (Zara, Pola e Fiume) scortata dai quattro cacciatorpediniere della IX Squadriglia e proveniente da Taranto, la III Divisione Incrociatori dell'ammiraglio Luigi Sansonetti (navi Trento, Trieste e Bolzano) scortata dalle tre unità della XII Squadriglia cacciatorpediniere e salpata da Messina, e la VIII Divisione Incrociatori dell'ammiraglio Antonio Legnani (Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) accompagnata dalle due unità della XVI Squadriglia cacciatorpediniere e partita da Brindisi.
Con il mare calmo ed il tempo buono di fine marzo, la formazione italiana iniziò così ad inoltrarsi nel mare Ionio. Il morale degli equipaggi era alto, visto che dopo settimane di stasi la flotta aveva finalmente intrapreso una decisa operazione offensiva.
Quella stessa notte, mentre la squadra italiana era in navigazione alla volta delle acque di Creta, un'unità della X Flottiglia MAS mise in atto un'audace attacco alla Baia di Suda (foto qui sopra), importante punto di ancoraggio per le navi Alleate: superando le ostruzioni, sei barchini esplosivi italiani attaccarono ed affondarono l'incrociatore pesante HMS York (l'unica unità di questo tipo in quel momento a disposizione di Cunningham nell'area) e una petroliera. Tale coincidenza, se non ci fosse stato lo squilibrio tecnologico e informativo, avrebbe certamente potuto forviare l’ufficio operazioni di Cunningham. |
La mattina del 27 marzo trovò le navi italiane ancora in navigazione nello Ionio: la foschia e il vento di Scirocco rendevano difficile mantenere la formazione, ma tutte le unità riuscirono a navigare alla velocità prevista. In base agli accordi presi con i tedeschi, un contingente di caccia del X CAT avrebbe dovuto fungere da scorta aerea alla formazione, ma nessun velivolo alleato venne scorto dalle navi italiane.
Invece, alle 12.25 il Trieste (che navigava in testa alla formazione) segnalò a Iachino di aver avvistato un idrovolante da ricognizione a lungo raggio britannico tipo Short S.25 Sunderland. Poco dopo, la squadra da decrittazione imbarcata sulla Vittorio Veneto intercettò il messaggio del ricognitore, il quale segnalava al comando di Alessandria di aver avvistato tre incrociatori ed un cacciatorpediniere al largo di Capo Passero».
Sebbene l'avvistamento facesse sfumare l'effetto sorpresa su cui molto puntava Iachino anche sulla base degli ordini ricevuti da Supermarina e rimasti sigillati fino alla partenza della spedizione, il ricognitore aveva individuato solo una piccola parte della squadra italiana, oltretutto sbagliando nello stimare la rotta e la velocità della formazione.
In considerazione di ciò, in un messaggio inviato alle 18.00 Supermarina confermò l'operazione con qualche piccola variante prudenziale, ordinando che tutta la squadra dovesse riunirsi la mattina successiva nei pressi dell'isolotto di Gaudo per attaccare il traffico nemico a sud di Creta, cancellando l'operazione a nord dell'isola.
Il messaggio inoltre annunciò a Iachino che la prevista ricognizione aerea su Alessandria era stata cancellata per via delle condizioni meteo, lasciando l'ammiraglio all'oscuro delle intenzioni della Mediterranean Fleet, la cui partenza da Alessandria era avvenuta di notte. Se i ricognitori italiani avessero visto il porto vuoto, sarebbe cambiato il corso della battaglia.
L'avvistamento da parte del Sunderland (voluto proprio per far sì che gli Italiani non sospettassero del «buco» di Enigma) non fece che confermare a Cunningham quanto aveva appreso dalla decrittazione dei messaggi di Enigma dei giorni precedenti, anche se lo lasciava nell'incertezza circa la composizione della squadra italiana.
Cunningham predispose subito tutte le misure del caso, dirottando i convogli Alleati lontano dalle coste cretesi, facendo partire e rientrare successivamente alcuni navi e preparando per la partenza la sua Force A, composta dalle tre corazzate HMS Warspite, HMS Barham e HMS Valiant, dalla portaerei HMS Formidable e da nove cacciatorpediniere. Per ingannare eventuali spie o informatori dell'Asse (ed in particolare il console giapponese ad Alessandria, notoriamente attivo in tali attività, l'ammiraglio sbarcò dalla Warspite e si recò tranquillamente a giocare a golf, salvo poi rientrare sulla sua ammiraglia poco prima della partenza.
La Force A salpò da Alessandria alle 19.00 del 27 marzo; contemporaneamente, dal porto greco del Pireo muoveva la Force B dell'ammiraglio Pridham-Wippell, forte di quattro incrociatori leggeri ed altrettanti cacciatorpediniere, alla quale Cunningham aveva dato appuntamento per la mattina successiva nei pressi dell'isoletta di Gaudo.
Dei Fairey Albacore decollano dal ponte della portaerei Formidable. Fu proprio la presenza della portaerei a permettere alla squadra britannica di rallentare ed agganciare in parte la squadra italiana.
L'ammiraglio Andrew Cunningham e l'ammiragio Angelo Iachino.
La strana coincidenza che vedeva l'ammiraglio britannico dare appuntamento alle sue forze proprio nella stessa zona in cui era diretta la flotta italiana diede adito, nel dopoguerra, a diverse speculazioni sulla presenza di informatori dei britannici in seno a Supermarina, quando non proprio ad accuse di tradimento nei confronti degli alti ufficiali della Marina.
La questione venne risolta solo nel 1975, quando i britannici resero pubblico il sistema di decrittazione di Enigma.
D'altro canto, lo stesso Cunningham era convinto che non ci sarebbe stato alcuno scontro, in quanto la squadra italiana si sarebbe ritirata, tanto che aveva scommesso ben dieci scellini (Cunningham era scozzese) con il comandante Power, addetto alle operazioni dello stato maggiore, in questo senso.
In condizioni di mare calmo e buona visibilità, la mattina del 28 marzo la flotta italiana giunse nelle acque di Gaudo divisa in tre raggruppamenti: la III Divisione incrociatori di Sansonetti in testa, la I Divisione incrociatori di Cattaneo in coda, e la Vittorio Veneto più o meno al centro della lunga teoria di navi italiane, che si estendeva per molte miglia.
Poco dopo l'alba, dalle navi italiane vennero catapultati due idrovolanti da ricognizione IMAM Ro.43 con il compito di individuare qualche convoglio nemico. Nelle intenzioni di Iachino, se entro le 7.00 non fosse stata avvistata alcuna unità nemica, tutta la squadra avrebbe invertito la rotta per rientrare alla base.
Intorno alle 6.35, il Ro.43 catapultato dalla Vittorio Veneto avvistò la Force B di Pridham-Whippel, circa 65 chilometri a sud-est della squadra italiana. Sebbene quasi subito avvistato dalle navi britanniche, il ricognitore italiano non venne, almeno inizialmente, fatto oggetto di fuoco contraereo (era stato scambiato per un aereo amico), e poté così fornire a Iachino dettagliate informazioni sucomposizione, rotta e velocità della formazione nemica.
Iachino ordinò subito alla III Divisione di Sansonetti di accelerare a 30 nodi e di serrare le distanze con gli incrociatori britannici, mentre lui seguiva l'azione con la Vittorio Veneto. Le divisioni di Cattaneo e Legnani risultavano troppo arretrate per poter essere immediatamente impiegate in azione.
Un'ora più tardi, alle 7.39, i ricognitori britannici decollati dalla Formidable avvistarono gli incrociatori di Sansonetti, dandone notizia a Cunningham che con le sue corazzate si trovava ancora a 280 km più a sud, rallentato dalla ridotta velocità (20 nodi) che la Warspite poteva tenere a causa di un guasto ai motori.
Gli avvistamenti dei diversi ricognitori britannici furono però molto contraddittori nello stimare la composizione della squadra italiana, comunicando l'avvistamento prima di quattro incrociatori e altrettanti cacciatorpediniere, poi di quattro incrociatori e nove cacciatorpediniere, e infine di tre corazzate e quattro cacciatorpediniere.
La contraddittorietà degli avvistamenti lasciò nell'incertezza i vertici britannici, tanto che Pridham-Whippel ritenne inizialmente che i ricognitori avessero scambiato per italiane le navi della sua squadra. Il dubbio venne infine chiarito alle 7.45, quando l'HMS Orion avvistò gli incrociatori di Sansonetti.
Una bordata della Vittorio Veneto nello scontro di Gaudo.
Lo scontro di Gaudo
La battaglia iniziò alle 812 del 28 marzo, quando gli incrociatori di Sansonetti aprirono il fuoco sulle navi britanniche di Pridham-Wippell, distanti circa 24.000 metri. I cannoni da 203 mm di cui erano dotati gli incrociatori italiani garantivano loro una maggiore gittata rispetto ai pezzi da 152 mm in dotazione ai britannici, e fu solo alle 8.29 che la prima nave della Force B, l'incrociatore HMS Gloucester, iniziò a rispondere al fuoco, nonostante da quella distanza il tiro fosse piuttosto inefficace.
Cosa singolare ma non insolita, sia Sansonetti che Pridham-Wippell avevano ricevuto dai rispettivi comandanti superiori lo stesso ordine: in caso di ingaggio, dovevano ritirarsi facendo in modo che il nemico li inseguisse, in modo da portarlo più vicino alle navi da battaglia. Pridham-Wippell mise subito in atto la tattica, piegando verso sud tallonato dagli incrociatori di Sansonetti che continuavano a sparare.
Nonostante le unità britanniche procedessero a zig-zag emettendo fumo, gli italiani riuscirono ad inquadrare il bersaglio, ma nessun colpo andò a segno.
Il comportamento dei britannici, di solito più propensi a gettarsi all'attacco, insospettì Iachino, contrariato anche dal fatto che il combattimento si stesse allontanando dalla Vittorio Veneto piuttosto che avvicinando, come era nelle sue intenzioni. Alle 8.36 comunicò quindi a Sansonetti di rompere il contatto con i britannici se non fosse stato possibile ridurre le distanze. Dopo altri venti minuti di inutile inseguimento con le macchine a tutta forza, alle 8.55, Sansonetti ordinò di invertire la rotta piegando verso ovest, incontro alla Vittorio Veneto. Subito, le navi di Pridham-Wippell accostarono e presero ad inseguire gli incrociatori italiani, rimanendo fuori tiro ma mantenendo il contatto visivo.
I britannici continuavano ad ignorare la presenza della Vittorio Veneto, mentre Iachino ricevette intorno alle 9.00 un messaggio da un ricognitore italiano che segnalava in zona la presenza di una portaerei e due corazzate e navi minori. L'avvistamento, risalente a un'ora prima, indicava però una posizione molto vicina a quella occupata allora dalle unità italiane, e sia l'ammiraglio che Supermarina concordarono sul fatto che il ricognitore avesse scambiato per britanniche le navi della squadra.
In quel momento Cunningham si trovava ancora a circa 65 miglia di distanza, e cercava di serrare le distanze per ingaggiare le navi italiane col grosso delle forze.
Persistendo l'inseguimento da parte delle unità di Pridham-Wippell, intorno alle 10.30 Iachino tentò una manovra per prendere in trappola le unità britanniche, stringendole tra la Vittorio Veneto ad est e la squadra di Sansonetti ad ovest. La manovra riuscì in pieno e alle 10.56 la corazzata italiana aprì il fuoco da una distanza di 23.000 metri sulle navi britanniche, che solo allora si resero conto della presenza in zona della nave.
Pridham-Wippell invertì subito la rotta, proteggendosi dietro una cortina fumogena. La Vittorio Veneto sparò in ventidue minuti 94 colpi con i cannoni da 381 mm, ma nonostante fosse riuscita ad inquadrare il bersaglio non mise a segno alcun centro sulle navi britanniche: solo l'incrociatore Orion riportò alcuni lievi danni, a causa di un colpo esploso nelle sue vicinanze.
La squadra britannica, colta inizialmente di sorpresa (tanto che si stava dirigendo per riconoscere la corazzata italiana, pensando che fosse della Royal Navy) emise efficaci cortine di fumo e invertì la rotta, sfuggendo al rischio di essere presa tra due fuochi (dalla sopraggiungente 3a Divisione).
Nonostante fosse composta da navi non eccezionalmente veloci (31-32 nodi) e costrette a zigzagare, riuscì a seminare gli inseguitori e dopo che la distanza aumentò ad oltre 26.000 metri, la corazzata italiana cessò il tiro, mentre nessuna delle divisioni incrociatori poté partecipare all'azione.
Proprio mentre il fuoco veniva cessato, apparvero in cielo degli aerei nemici.
Cunningham, informato di questo secondo scontro, si trovava ancora troppo lontano per intervenire direttamente, ma fece alzare dalla Formidable un gruppo di sei aerosiluranti Fairey Albacore, con il compito di attaccare l'ammiraglia italiana.
Gli aerosiluranti giunsero sulle navi italiane alle 11.15, inizialmente scambiati per dei caccia Fiat C.R.42 provenienti da Rodi. Seppur iniziata in ritardo, la reazione della contraerea italiana si dimostrò efficace, obbligando i velivoli britannici a lanciare i loro siluri da una distanza troppo elevata.
Accostando con tutta la barra a dritta, l'ammiraglia italiana riuscì a schivare tutti i siluri, ma questa manovra la costrinse ad interrompere il fuoco sugli incrociatori della Force B, che rapidamente si posero fuori tiro.
Con le navi di Pridham-Wippell ormai troppo lontane, l'operazione poteva dirsi fallita: nessun convoglio nemico era stato avvistato, i cacciatorpediniere erano a corto di carburante, e la mancanza di copertura aerea esponeva le unità italiane all'attacco da parte dei velivoli nemici di base negli aeroporti greci.
Alle 11.40 Iachino diede quindi ordine alla squadra di sospendere l'azione, invertire la rotta e rientrare alla base con direzione nord-ovest.
Un incrociatore italiano evita una bordata.
L'inseguimento e la Battaglia di Capo Matapan
Con la squadra italiana che invertiva la rotta per la seconda volta, l'ammiraglio Pridham-Wippell rinunciò a mantenere il contatto e ripiegò verso il gruppo dell'ammiraglia, a una quarantina di miglia di distanza, che raggiunse alle 12.30.
La forza di Cunningham era ora riunita, con le unità di Pridham-Wippell a fungere da avanguardia seguite dai cacciatorpediniere della Force A, dalle tre corazzate in linea di fila e dalla Formidable.
La formazione britannica era ora più compatta, ma la notevole distanza che la separava dalla squadra di Iachino e la maggiore velocità sviluppata dalle navi italiane rendeva quasi impossibile l'intercettamento del nemico. L'unica possibilità per Cunningham era di danneggiare con gli attacchi aerei qualche unità italiana, in modo da obbligare Iachino a rallentare l'andatura.
La squadra di Iachino continuava intanto a dirigersi a tutta forza verso le basi italiane, ignorando del tutto la presenza delle corazzate di Cunningham ad appena settanta miglia più a sud-est. Alle 14.25, tuttavia, il Vittorio Veneto intercettò un messaggio diretto a Supermarina da parte della base italiana di Rodi, il quale riferiva che «alle ore 12.15 un aereo da ricerca strategica sull'Egeo ha avvistato una corazzata, una portaerei, sei incrociatori e cinque cacciatorpediniere nel quadrante 5647», ovvero a sole 79 miglia dalla ammiraglia italiana.
Il messaggio conteneva notevoli imprecisioni sulla composizione della squadra nemica, ma dava con una buona approssimazione la posizione delle navi di Cunningham. Errore ben più grave, l'autore dell'avvistamento non era un «aereo da ricerca strategica», ma due aerosiluranti italiani Savoia-Marchetti S.M.79 della base di Rodi pilotati rispettivamente dal capitano Buscaglia e dal tenente Greco e con a bordo due osservatori della Marina, che avevano anche tentato di attaccare la Formidable senza però riuscire a colpirla.
L'avvistamento contrastava con un precedente rilevamento radiogonometrico che dava le navi britanniche a ben 170 miglia di distanza dalla squadra italiana, e quindi Iachino attese una conferma da Supermarina. Quando questa non arrivò, l'ammiraglio ritenne che il ricognitore si fosse sbagliato e avesse, come prima, scambiato per britanniche le navi della squadra italiana.
A partire dalle 14.30, una serie di attacchi aerei britannici si scatenarono sulla squadra italiana, condotti sia dagli aerosiluranti della Formidable sia dai bombardieri della Royal Air Force decollati dagli aeroporti greci; vennero contati due attacchi contro il Vittorio Veneto, due contro la III Divisione incrociatori e quattro contro la I Divisione, ma nessuna nave venne colpita.
Invece, fu il terzo attacco contro l'ammiraglia italiana, intorno alle 15.20, a riportare un successo: cinque aerosiluranti (tre Albacore e due Fairey Swordfish) della Formidable, scortati da alcuni caccia ed appoggiati dai bombardieri Bristol Blenheim della RAF, si avvicinarono al Vittorio Veneto e, mentre i caccia si buttavano in picchiata sulla corazzata per distrarre i serventi della contraerea, i tre Albacore si disposero a ventaglio davanti alla prua della nave per lanciare un attacco da più direzioni.
Due degli aerosiluranti lanciarono i loro ordigni da distanza troppo elevata e mancarono il bersaglio, ma l'apparecchio del capitano di corvetta Dalyell-Stead riuscì ad avvicinarsi a meno di 1.000 m dalla nave prima di lanciare il suo siluro, finendo abbattuto subito dopo dalla contraerea italiana con la perdita di tutto l'equipaggio.
La Vittorio Veneto cercò di schivare l'ordigno, ma senza successo: il siluro strusciò contro la prua ed esplose a poppa all'altezza dell'elica sinistra, più o meno intorno alle 15.29. L'albero motore esterno sinistro si spezzò e quello interno si fermò a causa delle infiltrazioni, il timone rimase bloccato e la nave imbarcò 4.000 t d'acqua a poppa, sbandando anche di 6º a sinistra.
Per sei minuti la nave rimase immobile, poi alle 15.36 riuscì a rimettere in funzione le macchine e a procedere guidata dal timone a mano, anche se solo alle 16.42 riuscì a riprendere la rotta con la velocità ridotta a 15 nodi e dopo aver fatto un giro completo di 360°.
Aerosiluranti italiani di base a Rodi.
Il siluramento del Vittorio Veneto cambiò l'ordine di priorità del comandante italiano: il salvataggio della nave danneggiata divenne ora per Iachino lo scopo essenziale dell'operazione.
L'ammiraglio fece disporre il resto della squadra a protezione della sua ammiraglia, assumendo una formazione su cinque file parallele distanti meno di 1.000 m l'una dall'altra: al centro il Vittorio Veneto preceduta e seguita dai suoi cacciatorpediniere di scorta, ai due lati gli incrociatori pesanti della I (dritta) e III Divisione (sinistra), e sul lato esterno di queste due file di cacciatorpediniere (IX squadriglia a dritta, XII a sinistra).
Gli incrociatori leggeri di Legnani vennero invece distaccati più a nord e lasciati liberi di agire autonomamente perché, alle 17.00 Iachino aveva ricevuto il messaggio di un ricognitore tedesco che segnalava la presenza di un gruppo di incrociatori leggeri nemici a sud di Cerigo. In realtà erano tre cacciatorpediniere britannici in missione di ricognizione a nord-ovest di Creta, ma l'ammiraglio distaccò Legnani per fronteggiare questa potenziale minaccia.
Il rallentamento del Vittorio Veneto aveva consentito a Cunningham di portarsi a circa 55 miglia dalla squadra italiana, ma le speranze di intercettarla rimanevano basse: dopo successive riparazioni, la nave da battaglia italiana era ora capace di sviluppare, seppur per brevi tratti, una velocità di 19 nodi, mentre le corazzate britanniche non riuscivano a superare i 20 nodi; le ore di luce andavano riducendosi, e più procedeva verso ovest più la squadra britannica entrava nel raggio d'azione degli aerei dell'Asse di base nell'Italia meridionale.
L'ammiraglio britannico aveva bisogno di informazioni fresche, e decise di inviare il suo esperto osservatore personale, capitano di corvetta Bolt, a sorvolare le navi italiane con l'idrovolante della Warspite. Bolt intercettò la squadra italiana intorno alle 18.20, segnalandone con precisione rotta e composizione, e confermando che la Vittorio Veneto era danneggiata, in quanto procedeva a velocità molto ridotta.
Cunningham decise di accettare i rischi di un combattimento notturno e, dopo aver ordinato ulteriori attacchi aerei sulle navi italiane, continuò l'inseguimento.
Il sole tramontò alle 18.55, ma sfruttando la luce del crepuscolo una nuova ondata di aerosiluranti della Formidable e bombardieri della RAF si avventò sulle navi italiane intorno alle 19.30. Nonostante la confusione e la scarsa visibilità data dalla poca luce e dalle cortine fumogene, i comandanti delle navi italiane riuscirono a mantenere la formazione e schivare gli attacchi dei velivoli nemici.
L'ultima incursione britannica ebbe termine alle 19.45 e a prima vista sembrò che non avesse sortito nessun effetto: nessuna nave italiana segnalava di essere stata colpita.
Solo alle 20.11 Iachino venne informato che l'incrociatore pesante Pola era stato colpito e stava rimanendo indietro rispetto al resto della formazione.
La corazzata Vittorio Veneto appoppata da 4.000 tonnellate di acqua imbarcate.
Posto in centro alla linea di fila assunta dalla I Divisione incrociatori, il Pola era stato colpito intorno alle 19.50, nelle fasi finali dell'attacco aereo britannico: uno Swordfish di base a Creta (molto probabilmente l'apparecchio del tenente Michael Torrens-Spence), sfruttando un varco nella cortina fumogena, era riuscito a portarsi a distanza ravvicinata all'incrociatore prima di lanciare il suo siluro, riuscendo a colpire la grande nave a poppa.
I danni erano pesanti: l'ordigno era esploso all'altezza del locale caldaie numero 3 e delle turbine di sinistra, uccidendo tutti i fuochisti e i meccanici che si trovavano in quel punto, mettendo subito fuori uso quattro delle otto caldaie e distruggendo le tubazioni del vapore di altre due, facendo imbarcare all'incrociatore 3.500 t d'acqua.
La nave era immobile, praticamente alla deriva, e priva di energia elettrica, rendendo così impossibile muovere le torri dei cannoni.
La notizia del danneggiamento del Pola giunse per prima sulla plancia di comando dello Zara, ammiraglia della I Divisione, intorno alle 20.00, quando ci si accorse che l'incrociatore stava rimanendo molto indietro rispetto al resto della formazione. Alle 20.11, Cattaneo inviò un messaggio al capitano di vascello Manlio De Pisa, comandante del Pola, chiedendo quali fossero i danni riportati dalla nave: questo messaggio venne intercettato anche dalla Vittorio Veneto, informando così Iachino della situazione.
Pochi minuti dopo il Pola rispose riferendo che non era più in grado di muoversi e chiedeva assistenza e rimorchio, messaggio girato dallo Zara al Vittorio Veneto intorno alle 20.15; a causa della lentezza del sistema di decrittazione, tra l'ammiraglia italiana e l'ammiraglia della I Divisione ci fu uno scambio di telegrammi che si incrociarono: alle 20.18 Iachino ordinò a Cattaneo di inviare l'intera I Divisione in soccorso al Pola, messaggio recapitato all'ammiraglio alle 20.21. Alle 20.27 venne invece consegnato a Iachino un messaggio di Cattaneo, spedito molto prima, che chiedeva di inviare, «salvo ordine contrario», solo due cacciatorpediniere di scorta al Pola.
Accortosi che i due telegrammi si erano incrociati, Cattaneo non ubbidì subito all'ordine del suo comandante, ma alle 20.24 inviò un secondo messaggio a Iachino: «Chiedo se posso invertire la rotta per andare a portare assistenza nave Pola.»
Ol messaggio venne recapitato all'ammiraglia italiana alle 20.56, e Iachino rispose affermativamente.
Alle 21.06, un'ora dopo il siluramento del Pola, gli incrociatori Zara e Fiume, seguiti dai cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Giosuè Carducci, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti, invertirono la rotta e, separandosi dal resto della squadra, procedettero in soccorso alla nave danneggiata.
L'inversione di rotta da parte degli incrociatori della I Divisione rappresentò il punto di svolta della battaglia: Iachino decise in tal senso probabilmente perché riteneva che i soli cacciatorpediniere potessero unicamente recuperare l'equipaggio del Pola e affondare l'incrociatore, perché per il rimorchio servivano unità più grosse.
Alle 20.05 Iachino aveva ricevuto da Supermarina un secondo rilevamento radiogoniometrico che segnalava le navi britanniche a circa 70-75 miglia a sud-est della squadra italiana (in realtà Cunningham era ancora più vicino, a circa 55 miglia di distanza), ma per qualche ragione tale messaggio non venne preso con la dovuta considerazione al momento della decisione: Iachino lo ritrasmise a Cattaneo quando questi invertì la rotta, ma non istruì il subordinato su come interpretarlo, comunicandogli solo, intorno alle 21.16, di abbandonare il Pola al suo destino in caso di contatto con forze nemiche superiori.
Sia Iachino che Cattaneo, d'altronde, ignoravano la presenza delle corazzate di Cunningham, come pure il fatto che i britannici fossero perfettamente equipaggiati e addestrati al combattimento notturno (nella Regia Marina solo i cacciatorpediniere, in parte, lo erano), potendo gli inglesi contare anche su apparecchiature radar installate su alcune unità.
A causa della manovra per invertire la rotta, le cacciatorpediniere della IX Squadriglia si erano ritrovati in coda alla I Divisione incrociatori, anziché procedere davanti ad essi disposti a ventaglio come era solito. Cattaneo tuttavia non ordinò di rettificare la formazione, continuando a procedere con tutte le unità in linea di fila.
La I Divisione procedette verso est alla velocità ridotta di 16 nodi (poi elevata a 22), anche se ciò era in parte giustificato dalla carenza di carburante sui cacciatorpediniere.
GdM
Fine prima parte - La seconda domani
Si ringrazia Wikipedia per le note e le fotografie.