«Paura, dolore, scienza e fede» – Di Nadia Clementi
Dialogo sul fine vita: ne parliamo con il dott. Francesco Bricolo, psichiatra e autore di un romanzo sul tema
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«Ognuno è padrone della propria morte e l’unica cosa che noi possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza paura, né dolore.»
(Gabriel Marquez)
La morte fa parte della vita. È il presupposto per chiunque venga al mondo, quindi è una delle cose più naturali. Ma la qualità della morte fa parte della qualità della vita.
Quindi è uno degli eventi che, paradossalmente, condiziona maggiormente la vita delle persone: temuta, allontanata, negata, ma a volte anche indotta, cercata, desiderata.
Ad ogni modo inevitabile.
Per questo abbiamo voluto affrontare l’argomento in tutta serenità, con l’aiuto di qualcuno che ne sa di più. E che ne ha scritto un libro.
Il caso, il destino direbbero alcuni, vuole che delle volte la morte si presenti prima del tempo, magari in seguito a una malattia che può essere breve e improvvisa o lunga e straziante.
È in quest’ultimo caso che la fine della propria vita, o di un famigliare, può essere affrontata e metabolizzata più a lungo. In questo i medici che assistono i malati e le loro famiglie risultano indispensabili, come indispensabile una formazione etica e morale ad hoc per il personale sanitario.
È ormai da molti anni che si susseguono sui giornali o in tv storie che riguardano la morte nei modi più svariati, introducendo nel vocabolario corrente termini medici che, purtroppo, spesso generano confusione: fine vita, eutanasia, accanimento terapeutico, accompagnamento alla morte, suicidio assistito.
Non è scopo di questo articolo spiegare le differenze tra questi vocaboli o illustrare posizioni favorevoli e contrarie a queste pratiche. Ciò su cui si vuole indagare è il modo in cui le persone affrontano la propria e l’altrui morte.
Quando ad un paziente viene detto che ha solo tre mesi di vita come si affronta l’argomento?
Nel caso in cui la persona malata non sia in grado di comprendere è giusto informarla?
Come cambia la vita di un nucleo famigliare in seguito a queste infauste notizie?
I malati messi di fronte ad una scadenza hanno paura della propria fine e del dolore, i famigliari spesso temono la separazione e provano un angosciante senso si impotenza, i medici vengono ancora una volta messi di fronte all’evidenza che per certi dolori non c’è farmaco o terapia efficaci.
Chi è il dott. Francesco Bricolo Francesco Bricolo è nato e vive a Verona. Classe 1964, medico psichiatra, si divide tra conferenze e lezioni; da oltre vent'anni si occupa del complesso tema delle tossicodipendenze ed é autore di decine di pubblicazioni di carattere scientifico. La scrittura é una passione relativamente recente: debutta con la saggistica nel 2009 con «L'infinito nel finito, San Matteo e l'angelo di Caravaggio: esercizio di lettura». Nel 2013 pubblica il suo primo romanzo, «Tutto bene, signora». |
In che modo la morte condiziona la nostra esistenza? E quali sono le maggiori paure delle persone riguardo a situazioni cliniche difficili?
«È indubbio che vita e morte, eros e thanathos siano argomenti così ancestrali, profondi e radicali che da sempre scatenano il peggio e il meglio in tutti noi. Sono davvero rare le occasioni in cui un dibattito pubblico sul fine vita si svolge con tranquillità, senza polemiche e forti contrapposizioni.
«Questo accade perché la vita e la morte non sono un argomento qualsiasi, si tratta di una questione che ci riguarda non solo come individui ma soprattutto come genere umano, ognuno con le proprie speranze, la propria cultura e la propria fede.
«La mia identità di psichiatra mi permette di vedere le cose da un'angolatura che può essere considerata disincantata: tempo fa un'amica mi raccontava di una conoscente da mesi in coma e di come lei e i suoi famigliari vadano a trovarla.
«Durante le visite le stanno vicino, le parlano, le cantano delle canzoni e vedono delle reazioni da parte della malata che in qualche maniera danno speranza, anche se in proposito i medici hanno detto con chiarezza che non c'è più nulla da fare.
«Tuttavia quando proprio a queste persone si fa presente che ci sono malati che non vogliono questo, che chiedono di non essere lasciate vivere in quella condizione, non comprendono e si sentono cadere in un vuoto profondo, quando non nell’indignazione. A loro, come d’altra parte al sottoscritto, è stato insegnato che quella è vita e non la si deve sopprimere, nemmeno se a chiederlo è stata la stessa persona quando stava bene.
Io stesso sono stato educato in questo senso e che ho dovuto lavorare su me stesso negli anni per educarmi al rispetto della volontà altrui anche quando è in contrapposizione con la mia educazione, la mia storia. Sono stati i miei pazienti ad insegnarmi questo.
«Per un cattolico è molto difficile accettare che una persona voglia mettere fine alla propria vita, per alcuni è addirittura impossibile.
«Da quando ho pubblicato il mio romanzo, “Tutto bene signora”, molti mi chiedono se sono a favore o contro l'eutanasia. Trovo che questa domanda sia davvero mal posta e contenga una grossa confusione.
«In Italia inoltre la legislazione a proposito è decisamente poco chiara. Quello che mi sento di dire come medico cattolico è che Dio non ha avuto paura di darci la libertà e noi non dobbiamo avere timore di rispettare chi vuole esercitare la propria.
«Dobbiamo aiutare queste persone a fare la scelta migliore per se stessi, rispettando e accompagnando nel loro cammino anche coloro che vanno in direzione opposta alla nostra.»
Quali sono i sentimenti, le domande, le paure che passano nella mente di una persona a cui sono stati predetti pochi mesi di vita?
«Le reazione sono le più diverse e il medico specialista è solitamente abituato a gestirle tutte sempre rispettando la libertà del singolo
«La reazione più normale è l'accettazione della diagnosi e della prognosi, che può esprimersi nei modi più disparati da persona a persona. Il medico cerca da parte sua di offrire tutto quello che la sua esperienza e professionalità gli hanno insegnato.
«Il coinvolgimento dei famigliari è ovviamente fondamentale. Lo specialista invita sempre la persona a parlarne con i propri cari. Si considera congrua una reazione quando il paziente esprime il suo dolore con il pianto e con la depressione. Coloro che credono trovano nella preghiera un supporto.»
«Diversamente da questa reazione ci sono varie forme di negazione e fuga. Alcune persone per esempio nemmeno si presentano all'appuntamento con lo specialista perché hanno già capito, intuito e scappano nel senso fisico del termine.
«Certe volte la fuga non si presenta come un'assenza fisica ma come la negazione o relativizzazione del problema. Così lo specialista è costretto a confrontarsi con un muro, fatto di continue domande di accettazione, esami, controlli.
«Negli ultimi anni, anche grazie ad alcuni casi mediatici, si sono fatte strada altri modi di fare fronte a queste situazioni. C'è il rifiuto delle cure che è la forma più semplice, per capirci lo ha fatto il Cardinal Martini, fino alle forme più estreme, come il suicidio assistito o l’eutanasia, che però in Italia non sono consentite e richiedono viaggi all'estero.»
Quali sono le reazioni delle persone vicine che soffrono con il malato? Come devono comportarsi?
«Quando la morte arriva in modo anticipato e imprevisto anche il familiare può andare nel panico e lasciarsi prendere dalla disperazione. Questo accade maggiormente quando ci sono famiglie con bimbi piccoli.
«In genere comunque quando la morte inaspettata e anticipata colpisce per esempio un coniuge, l'altro cerca di stargli vicino come può e questo è di grande conforto.»
Si può dire che l’inizio e la fine della vita in qualche modo si somiglino? In fondo si tratta di un ciclo che si conclude.
«Forse una volta era così, ora non più. Nessuno può scegliere come nascere, mentre possiamo scegliere come vivere e come andarcene e questo non era possibile per la generazione dei nostri nonni. Proprio loro, i nostri nonni, ci hanno insegnato forse la cosa più preziosa: credere che la morte è si una fine ma anche un inizio e questo è forse la cosa più importante di tutte.
«Non è stato però questo che mi ha portato a scrivere il mio romanzo. Voglio dire che non ho scritto quella storia pensando alla morte come la nostra più grande rimozione. Ricordo bene che buttai giù di getto delle pagine in cui una psicologa parlava con un uomo che stava morendo di cancro.
«Quel personaggio, che poi divenne il protagonista del romanzo, parlava molto duramente a proposito della sua tragedia. Dalla mattina alla sera s’era trovato con una diagnosi maligna e una prognosi di pochi mesi di vita.
«Il protagonista del mio romanzo farà poi delle scelte importanti e saranno quelle scelte che permetteranno di sviluppare la sua storia: le scelte di Tiberio sono di fatto diametralmente opposte a quelle a cui sono stato educato.
«Come cattolico io sono cresciuto dentro una chiesa che m’insegnava che non si doveva abortire, non si doveva divorziare e meno che mai si poteva anche solo pensare di staccare la spina a qualcuno anche se si trovava in una condizione estrema.»
«Tutto bene, signora», è il romanzo d’esordio di Francesco Bricolo. Il libro narra una grande storia di amore, di dolore e commozione che fa riflettere sull’incapacità di darsi delle risposte davanti alla sofferenza e alla fine della vita. Una storia coinvolgente, attuale che si legge in un fiato, una trama che cattura l’attenzione fin dalle prime pagine. |
Il 23 novembre 2013 è uscito, per Edizioni Pragmata il suo romanzo d’esordio, «Tutto bene, signora», che è stato presentato con un buon seguito alla Feltrinelli Express di Verona. Ci dica che storia racconta questo romanzo di 460 pagine.
«Protagonista è una famiglia di Milano, Tiberio Brambilla e Sabrina Bozzoli sono i genitori e Tommaso e Chiara figlio e figlia. A seguito di una gastroscopia Tiberio scopre di avere un cancro.»
Come inizio di un romanzo è piuttosto forte, Come mai questa scelta?
«Alla fine del romanzo ho messo una nota personale nella quale spiego perché l’ho scritto. Quello che posso dire è che la trama è data dal concatenarsi delle scelte del protagonista, che dopo la diagnosi si troverà appunto a prendere delle decisioni che coinvolgono lui in prima persona ma anche tutta la sua famiglia.»
Lei è psichiatra, specializzato nelle tossicodipendenze, da oltre vent’anni. È un lavoro che certamente la mette a contatto con persone che soffrono.
«Certamente, la sofferenza psichica appartiene a tutti noi in un modo o nell’altro. In ogni malattia c’è una dimensione psichica.»
Com’è nata l’idea di scrivere il suo primo romanzo a 47 anni?
«Il libro è nato in una maniera inaspettata: mi sono trovato a scrivere di getto dei dialoghi che poi nel romanzo sono diventati i colloquio tra Maria e Tiberio.
«Quando li ho riletti sono rimasto io stesso impressionato da quello che avevo scritto e ho pensato che valeva la pena costruirgli attorno una storia.»
Non sia modesto. Per costruire attorno a dei dialoghi una storia bisogna avere la stoffa, non lo si fa in due minuti.
«Ma in sei mesi sì. La prima bozza è nata così velocemente e ci sono stati dei momenti in cui mi girava davvero la testa tanto era difficile dare coerenza al tutto. Ora che l’ho fatto so bene quando costa realizzare l’intuizione iniziale.»
Mi spieghi meglio cosa vuole dire.
«La sa quella di Alfred Hitchcock e la bomba sotto il tavolo.»
No. Sentiamola.
«Scena uno: la telecamera inquadra due persone sedute al tavolo che mangiano in un ristorante. Nulla di particolare.
«Scena due: la telecamera mostra un congegno che sembra una bomba ma lo spettatore non sa dove sia.
«Scena tre: la telecamera fa vedere che la bomba è sotto il tavolo. Ora lo spettatore sa che quei due che mangiano si trovano sopra una bomba. Cosa succederà? Se metto la scena tre al posto della uno non c'è suspense.
«È questo l’insegnamento di Alfred Hitchcock: se si viole costruire una suspense allo spettatore vanno date informazioni precise in una scansione temporale precisa.»
Che cosa ci vuole dire con questo esempio? Che s’è ispirato a Alfred Hitchcock?
«Sei lei legge i commenti di lettori e lettrici che ho messo sul sito e su facebook vedrà che i termini appassionante e avvincente si ripetono.
«Che la storia non fosse avvincente era una delle mie grandi paure. Se un romanzo non aggancia l’attenzione del lettore e della lettrice è un romanzo morto.
«Per scriverlo così ho letto molto. Leggere e scrivere si nutrono vicendevolmente.»
Dai commenti dei lettori parrebbe che lei ci sia riuscito, ha in mente di proseguire la sua carriere da scrittore?
«Ho diverse bozze già pronte, il problema è trovare il tempo per finirle. Ho potuto scrivere questo libro solo perché in quel momento si sono verificate una serie di coincidenze.
«È arrivata l’intuizione giusta, avevo tempo da dedicargli e poi ho trovato sul mio cammino alcune persone che mi hanno aiutato a fare delle scelte importanti.»
Ci auguriamo che queste condizioni favorevoli si ripropongano e aspettiamo il prossimo romanzo. In bocca al lupo.
«Crepi. Grazie.»
Nadia Clementi - [email protected]
Dott. Francesco Bricolo - HYPERLINK - [email protected]