«Nel cuore nessuna croce manca»: parla Quinto Antonelli

Nel corso della Grande Guerra morirono 6.400 soldati al giorno. Di questi, più di sette erano trentini

Lo storico roveretano Quinto Antonelli ha dedicato gran parte della sua attività di studioso a raccogliere, spesso decifrare, studiare, riordinare e laddove possibile pubblicare diari, epistolari, memorie che sono state scritte per lo più da persone semplici, magari di poca cultura, talvolta semianalfabete ma ricchissime di genuina umanità e, molto spesso, coinvolte nel dramma atroce della guerra.

Questo lavoro è di recente sfociato in un libro subito balzato agli onori delle cronache dal titolo «I dimenticati della Grande Guerra».
Nulla di strano quindi se, chiamato a tenere una conferenza su «Come si moriva nella Prima guerra mondiale» nell'ambito del Memoriale «Nel cuore nessuna croce manca», aperto al pubblico nella Sala di rappresentanza del palazzo della Regione fino al prossimo 14 febbraio, Antonelli ha riempito la sala con un pubblico attento e interessato.

«Cominciamo col pensare a 'quanto' si moriva nella prima guerra mondiale - ha esordito lo storico, - che un motivo doveva pur averlo, se venne chiamata «Grande» guerra!
«Nei 1.545 giorni di conflitto, morirono dai 9 ai 10 milioni di soldati, fanti, marinai, aviatori... A cui dobbiamo aggiungere la cifra di circa 5 milioni di civili morti per bombardamenti, occupazioni militari, malattie...
«Se facciamo un breve calcolo, riferendolo ai soli morti in divisa, abbiamo il dato agghiacciante di circa 6.400 morti in media al giorno!»

Come a dire che gli 11.400 caduti raccolti oggi nel Memoriale di Piazza Dante sono il tragico risultato di sole due giornate di conflitto.
O, per vederla dal punto di vista strettamente localizzato, ogni giorno morivano più di sette soldati trentini.
A osservare quell'infinita sequela di nomi cognomi stampata sul lenzuolo circolare della circonferenza di 45 metri, vengono i brividi.

Se, poi, vogliamo affrontare il tema del «come» si moriva al fronte, allo storico Antonelli sono venute in soccorso le migliaia di pagine di diari, epistolari, memorie che raccontano con dovizia di particolari le condizioni di vita dei militari in trincea.

«Scaraventati al fronte senza addestramento, - ha proseguito Antonelli - sradicati dai campi, dalle botteghe e dalle loro quotidiane occupazioni, ai nostri soldati trentini (così come a tutti gli altri) la guerra piombò addosso con la furia improvvisa e cieca di una catastrofe immane, inattesa, ai più perfino incomprensibile.
«Si passò dalla pace alla guerra senza quasi averne coscienza, anzi: rendendosene conto benissimo subito: il freddo, il gelo, le malattie, la fame, senza avere la possibilità di reagire e di pensarci con calma.
«Fu un annientamento psicologico, un adeguarsi istantaneo alla violenza cieca dei combattimenti, dei bombardamenti, degli scontri corpo a corpo, un adattarsi repentino all'idea della morte con cui convivere forzatamente, senza alternative.
«Osservando i commilitoni che ti cadevano accanto feriti a morte, erano via via portati a pensare che scampare da quell'orrendo destino era solo una questione di fortuna. L'idea di morte come virtualità permanente. Sfuggirne era un'eccezione alla regola.»

Con l'aiuto di una serie agghiacciante di immagini di morte, scattate lungo i fronti della prima guerra mondiale, Quinto Antonelli ha quindi affrontato alcune riflessioni di merito leggendo pagine di diari e di lettere dal fronte.
«La morte di massa porta i soldati (spesso poco più che ragazzini) ad abituarsi ai corpi marcescenti, all'odore dei cadaveri in decomposizione, a convivere con ciò che rimane dei commilitoni caduti in battaglia. I massacri perdono i connotati di eventi traumatizzanti e ci si abitua invariabilmente a vedere gli altri morire, in attesa che poi tocchi a te... anche se in fondo al cuore ognuno di quei soldati pensava di farcela: Tranquillo, a me non capiterà mai!.
«È per questo che la morte dell'amico che è al tuo fianco giunge disperata, ancor più dolorosa e incomprensibile.»

Ma la morte di massa è propedeutica ad una guerra intesa come «annientamento delle individualità» e questa fu la grande novità della prima guerra mondiale.
«Corpi, cadaveri senza identità, che non avevano più un nome e un cognome... - Ha continuato lo storico. - Un macello di carne umana, come si legge in qualche lettera spedita a casa con descrizioni agghiaccianti... Se uno muore, nessuno ci bada! scrivono ancora i nostri contadini con il moschetto in mano. Perché la morte di massa si fa forte del numero dei caduti, della frequenza con cui i soldati cadono e della condizione di anonimato in cui si muore.»

Anche «uccidere il nemico» diventa un momento di bestialità infinita, di ferocia quasi inenarrabile. C'è chi, dopo ogni uccisione, si ripara solitario in fondo alla trincea per recitare un atto di contrizione, salvo poi imbracciate nuovamente il fucile e ritornare ad essere belva assetata.

Anche «uccidere i civili» diventa un momento della guerra accettato con freddezza e distacco, un elemento quasi necessario nell'ambito di una strategia di annientamento demografico che nella Grande Guerra vide per la prima volta l'utilizzo di armi di sterminio di massa come i gas mortali.

Crudeltà atroci vennero perpetrate contro i bambini, i vecchi inermi, i preti, gli ebrei (fredde e atroci sono talvolta le descrizioni che fanno i nostri soldati di interi villaggi distrutti dopo averne massacrato la popolazione, impiccando gli uomini e fucilando vecchi, donne e bambini), ma anche contro coloro che avevano la disgrazia di vivere nelle vicinanze di un fronte di guerra e per i quali bastava pochissimo per esser considerati collaborazionisti e liquidati all'istante. Venne inventato allora il sistema dello «sterminio preventivo».

«Tifo, asma, broncopolmoniti, tubercolosi, nevrastenia, diarrea, colera, a cui si aggiungono sottonutrizione, shock da bombardamenti, solitudine, freddo... Se non morivi in battaglia, c'erano molte infide malattie ad attenderti, ma anche medici ormai avvezzi ad applicare il metodo dell'eutanasia sanitaria... (Una semplice iniezione e dopo un quarto d'ora eri pronto per la fossa comune).
«E se qualcuno impazziva (ed erano molti quelli che perdevano realmente il lume della ragione), poteva anche non esser creduto, veniva rispedito al fronte e, in caso di fuga, condannato al plotone anche se i medici attestavano lo stato di irresponsabile pazzia.»

Quinto Antonelli ha poi esaminato il rovescio della medaglia, e cioè come veniva vissuta, a casa, la notizia della morte di un caro, di un parente, di un amico avvenuta al fronte.
«Teniamo presente che a seguito di questi 11.400 caduti in guerra - ha detto Antonelli, indicando il grande anello del Memoriale, - ci sono state 11.400 notizie di morte, giunte a casa senza preavviso, fredde come possono esserlo le parole di un telegramma, inesorabili e irreparabili come lo sono le notizie delle morti in guerra.
«Spesso non c'era nemmeno più la forza per piangere... Bisognava risparmiare il dolore in attesa di altre possibili notizie.»

Letture vive, sono state quelle fatte da Quinto Antonelli nel corso della sua conferenza.
Quelle che abbiamo ascoltato sono pagine di diari, di lettere, quindi sono parole scritte da chi non aveva la certezza di scrivere le proprie ultime volontà. Non sono, quindi, le ultime parole di una vita, come accade ad esempio per le lettere dei condannati a morte, che sono in realtà testamenti ideali.
Sono lettere vive che vennero interrotte all'improvviso dall'evento della morte - talvolta nel diario la descrizione della fine viene aggiunta dall'amico di trincea rimasto in vita, chissà ancora per quanto - e che però ci parlano di una morte immane e immanente, devastante e generale.

«L'unica consolazione che oggi ci rimane - ha aggiunto in conclusione l'assessore Panizza,-- è proprio quella di ricordare uno a uno i nomi e i cognomi di tutti i nostri conterranei caduti al fronte.
«L'unico modo che abbiamo di risarcire fino in fondo il loro sacrificio è quello di far capire ai nostri giovani quel che accadde allora e quel che oggi e domani non dovrà accadere mai più.
«La vera lezione di questo memoriale è una lezione di pace, di dialogo, di convivenza pacifica tra le Nazioni e i popoli.»