Trento 1940-1945. I testimoni raccontano – Di Nadia Mariz

Attraverso oltre 50 interviste, i fatti accaduti a Trento nella Seconda guerra mondiale

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Titolo: Trento 1940-1945 I testimoni raccontano

Autore: Nadia Mariz
 
Genere: storico
Editrice: La Grafica
 
Prezzo copertina: 45 euro
Pagine: 280 - Rilegato 
 
 
A più di settant’anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale, il volume racconta gli accadimenti verificatisi a Trento tra il 1940 e il 1945, un parallelismo storico tra la Grande Storia e quella della nostra città, un percorso trasversale in un periodo storico complesso e articolato.
Attraverso oltre cinquanta interviste, sono gli anziani di oggi, bambini e ragazzi di allora, a ripercorrere com’era la vita in città prima dell’entrata in guerra e come è cambiata successivamente, soprattutto dopo il 2 settembre 1943 con il primo bombardamento e l’annientamento dell’antico rione della Portèla.
La descrizione documenta anche i successivi trentadue bombardamenti avvenuti tra il 13 maggio 1944 e il 25 aprile 1945, passando attraverso l’annuncio della firma dell’armistizio, l’annessione del Trentino al Reich con i seicento giorni di occupazione tedesca, fino alla cessazione delle ostilità  e all’inizio di una nuova fase di ricostruzione.
Accanto alle interviste, la descrizione degli eventi desunta dalla documentazione raccolta nei diversi archivi storici, dalle  notizie tratte dalla consistente bibliografia consultata e dagli articoli dei quotidiani dell’epoca, è supportata da oltre duecentocinquanta immagini fotografiche e iconografiche.
 
 Il volume si articola in sei capitoli
capitolo I: Prima della guerra - La Portèla - In città e dintorni
capitolo II: La guerra - Il 2 settembre 1943
capitolo III: L’armistizio - Oltre confine - L’Operationszone Alpenvorland
capitolo IV: Il 13 maggio 1944
capitolo V: Ancora bombe - Il Pippo - Al Pont dei Vòdi
capitolo VI: La fine della guerra – L’arrivo degli alleati - Dopo la guerra

È il 1943 e fino a questo momento Trento è stata risparmiata dai pesanti bombardamenti che hanno colpito Roma e le maggiori città italiane e, benché gli anglo-americani abbiano provveduto al lancio di volantini riportanti il titolo «Perché vi bombardiamo», la città si illude di non essere un obiettivo militare rilevante in quanto non possiede importanti industrie belliche da colpire.
Per questo è praticamente sprovvista di artiglieria antiaerea. Infatti, le postazioni dell’Unpa, Unione nazionale protezione antiaerea, sono poche e mal equipaggiate. I rifugi sono quattro, piccoli e non in grado di soddisfare l’eventuale necessità. Sono situati in piazza Venezia, alla Busa, in San Martino e a Piedicastello.
Diciotto ricoveri pubblici completano l’offerta e, comunque, la popolazione è istruita, in caso di incursione aerea, a cercare eventuale riparo nelle cantine e negli scantinati degli edifici. Si è abituati al passaggio di aerei, al loro rumore, alle striature bianche che, per rarefazione dell’aria, lasciano nel cielo. Gli allarmi, fino a questo momento, si sono rivelati falsi. Inoltre, tra le tante, una diceria, suffragata dalla voce ufficiale, vuole che un fantomatico vuoto d’aria dalla Paganella impedisca agli aerei di abbassarsi di quota per sganciare il carico di morte.
Il 2 settembre 1943 è giovedì, una giornata calda, quasi afosa. Mezzogiorno passato da poco.
Suona la sirena d’allarme. Uno dopo l’altro i sei fischi si susseguono, si avverte il rombo dei motori ma quasi nessuno si scompone. In lontananza qualcuno scorge gli aerei e nota dei piccoli bagliori, dei puntini che riflettono i raggi del sole. Sono un centinaio di bombe, 218 tonnellate, sganciate da novantuno B17, le Fortezze Volanti della Mediterranean Allied Air Force.
C’è appena il tempo di gridare «… le bombe!», per i più neanche quello di mettersi al riparo, che un enorme boato fagocita la città. La terra trema per alcuni minuti, sette, forse otto. Quanto basta perché un rione e il suo carico di umanità, unico e irrepetibile, siano annientati, per sempre.
 
La Portèla è ridotta a un ammasso di macerie.
Il cielo di quella soleggiata giornata di fine estate è oscurato da una fitta coltre di polvere e fumo.
Il frastuono delle esplosioni lascia il posto a un silenzio irreale che pervade le vie e le piazze del rione e dell’intera città. A poco a poco si odono, sempre più forti, le invocazioni disperate di chi chiama aiuto e, col diradarsi della polvere, i superstiti terrorizzati, attoniti e increduli, iniziano ad aggirarsi tra le macerie, ad arrancare sui detriti, seguendo le grida, alla ricerca di qualche punto di riferimento che permetta loro di capire quali sassi, travi e calcinacci corrispondano alla propria casa, sotto quale cumulo poter cercare i propri cari.
Gridano un nome, più nomi. Il caos e lo strazio sono indescrivibili. Si cominciano a distinguere le sagome di alcuni corpi, riversi, seminudi, irriconoscibili, colpiti dalle schegge, dai detriti o scaraventati addosso al primo ostacolo che nello spostamento d’aria hanno incontrato. Arrivano i soccorsi e subito si inizia a prestare assistenza ai feriti e a scavare. Scavano le squadre dell’Unpa, dei Vigili del fuoco, degli Alpini, del personale sanitario, volontari e operai, i più a mani nude. Scavano anche i frati.
I feriti sono trasportati all’interno della chiesa di Santa Maria Maggiore, rimasta quasi illesa. Le autolettighe, a sirene spiegate, fanno da spola fra il rione e l’ospedale Santa Chiara o la clinica privata del dottor Merler. Per i chirurghi sono cominciate lunghe ore di snervante lavoro. A loro il compito e il merito di salvare una vita, anche se a scapito di una parte del corpo. Vengono rimarginati brandelli di carne e amputati arti.
 
I morti vengono portati al cimitero. Qui i frati francescani ricompongono i corpi e conducono i familiari e gli amici delle vittime in un triste pellegrinaggio lungo i viali ai lati dei quali sono ordinati i cadaveri. Le poche bare disponibili contengono corpi straziati o parti di essi e il riconoscimento può passare anche attraverso piccoli oggetti personali come catenine o anelli, o pezzi d’abito e quant’altro permetta di assegnare un nome a quei miseri resti.
Sono 198 le persone a rimanere uccise nell’incursione aerea: 75 uomini, 103 donne, 12 bambini e 8 militari. 163 i feriti. Le ricerche dei sopravissuti, tra un allarme e l’altro, continuano incessanti quella notte e nei giorni successivi. Si odono le grida e le richieste di aiuto dei sepolti vivi, voci che si spegneranno lentamente col trascorrere delle ore e dei giorni. L’intera città è sotto choc e, soprattutto, ora si sa, non è sicura.

Questo è un breve stralcio tratto dal libro «Trento 1940-1945. I testimoni raccontano» di Nadia Mariz, il racconto degli attimi in cui la guerra, quella vera, si abbatté per la prima volta sulla città. Ma tra il 2 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 saranno ben trentatré i bombardamenti aerei sul capoluogo e che provocheranno complessivamente la morte di quasi cinquecento persone e il ferimento di altrettante, con la distruzione e il danneggiamento di oltre millesettecento edifici.
 
Il volume racconta la Seconda guerra mondiale a Trento attraverso le parole di oltre cinquanta testimoni, i bambini e i ragazzi di allora, contestualizzate dalla documentazione raccolta nei diversi archivi storici e dalla consistente bibliografica consultata, dai resoconti giornalistici dei quotidiani e delle riviste dell’epoca e da una ricca rassegna fotografica e iconografica di immagini quasi completamente inedite che raccontano di luoghi della città spesso riconoscibili solo attraverso la descrizione didascalica. 
 
La narrazione inizia all’indomani della Prima guerra mondiale per proseguire con la cronaca dei grandi mutamenti politici nazionali e internazionali e le conseguenti ricadute sulla popolazione cittadina in una quotidianità fatta di miseria e sacrifici, tra inaugurazioni, adunate oceaniche, tessere annonarie, mercato nero, incursioni aeree, sfollamento e corse ai rifugi, passando attraverso l’annuncio della firma dell’armistizio e all’assalto alle caserme con l’inizio dei seicento giorni di occupazione tedesca per arrivare alla fine della guerra e all’avvio di una nuova fase di ricostruzione. Un volume che oltre ad essere una dichiarazione d’amore verso la propria città, l’autrice dedica a quei cittadini che hanno sofferto, resistito e ricostruito.